La Cucina ai tempi di Federico II
Tratto da un testo di Anna Martellotti
Se la nuova civiltà alimentare dell'Europa tardo medievale,
fiorita con la ripresa economica e commerciale dopo la crisi
dell'anno Mille, nacque dalla sintesi delle due componenti latina e
germanica (cereali e carni), sotto il profilo più
squisitamente gastronomico è in palese debito con la grande
tradizione arabo-persiana che si era sviluppata dopo l'insediamento
della dinastia abbaside in Iraq
.
Per il tramite arabo giunsero infatti in Europa, insieme a nuovi
prodotti (come lo zucchero, il riso, gli agrumi, alcune verdure e
inusitate miscele di spezie), i grandi piatti aromatizzati e colorati
della cucina orientale a soddisfare il desiderio di lusso e di
esotismo, mentre la dietetica analizzava i più indovinati
accostamenti di ingredienti.
La cucina araba trovò fertile terreno in
Sicilia, un paese di
grande tradizione alimentare fin dall'epoca degli insediamenti greci,
che in quasi due secoli di dominazione musulmana ha sperimentato un
proficuo 'bilinguismo alimentare', e venne poi facilmente trasmessa
dalle popolazioni autoctone ai
normanni, assai inclini all'epoca alle
mode orientali, non da ultimo per la vicinanza della Scuola medica di
Salerno, che si era aperta assai presto agli influssi arabi con le
traduzioni di Costantino Africano (m. 1087).
Giovanni di Salisbury durante una sua visita in Puglia, forse tra
il 1155 e il 1156 al seguito del papa Adriano IV, invitato a cena da
un non meglio identificato "dives Canusinus", si
scandalizzò della ricchezza cosmopolita dell'imbandigione, indicando
la provenienza delle specialità da Bisanzio e dai paesi arabi del
Vicino Oriente e dell'Africa.
I nuovi piatti vennero esportati in Inghilterra, probabilmente
durante il regno di Guglielmo II di Sicilia (1166-1189, il quale
aveva sposato nel 1177 Giovanna figlia di Enrico II d'Inghilterra),
come dimostrano due ricettari anglo-normanni pieni di arabismi che,
in seguito tradotti, formano il nucleo dei più antichi libri di
cucina inglesi.
Ma sarà sotto
Federico II che vedremo attuarsi una sintesi
coerente dei diversi elementi, con un'indiscutibile presenza di
ricette arabe rivisitate secondo i gusti occidentali, con un occhio
agli arrosti germanici, senza rinunziare alla tradizione latina nella
predilezione per i farinacei e le verdure. Questa cucina, che ha
l'ambizione di presentarsi come genuinamente europea, trova la sua
più perfetta codificazione nel
Liber de coquina, redatto
certamente nell'ambito della corte, attraverso una serie di scritture
e di rimaneggiamenti in cui si riflettono i diversi aspetti della
personalità dell'imperatore, che ricrea nella sua corte i cenacoli colti e sfarzosi dei
grandi califfi di Baghdad, centri di poesia e di discorsi
sulla letteratura
, dove anche il cibo diviene oggetto di dotte
disquisizioni e di garbate narrazioni; che ostenta sul modello arabo
una conoscenza di prima mano dei procedimenti culinari e firma una
ricetta di cavoli ("caules secundum usum imperatoris").
Alla volontà di dotare la corte e tutto il Regno di una raccolta
di ricette in volgare come prosecuzione delle ricette normanne,
si collega il ricettario
conosciuto come
Meridionale A.
L'atteggiamento scientifico della mentalità di Federico si
riflette invece nell'attenzione per la dietetica e la conseguente
scelta di seguire uno stretto regime alimentare, con grande scandalo
dei suoi detrattori, che lo accusavano di rinunziare al cibo solo per
motivi di salute e non per conquistarsi il paradiso
.
Agli interessi dietetico-sanitari si ricollega l'idea di
trasformare un'ostentatoria raccolta di leccornie e di piatti
speciali, particolarmente sbilanciata nell'imitazione della
gastronomia araba, in un manuale di cucina di impostazione
scientifica che rifletta le caratteristiche della nuova cucina
europea, redatto in latino e rivolto non più al Regno, ma
all'Impero, o forse a tutto l'Occidente. Una prima versione, basata
essenzialmente sul
Meridionale A, ma ampliata inserendo
all'inizio un trattato sulle verdure e a conclusione una sezione di
cibi per malati (ambedue ispirati alla trattatistica medica), è
andata perduta, ma se ne conserva una traduzione in toscano: il
Libro
della cocina (Zambrini, 1863). Un successivo tentativo sfocia nella redazione finale del
Liber de coquina, in
cui tutte le preparazioni risultano classificate secondo le materie
prime, suddivise in cinque capitoli sul modello della trattatistica
medica: verdure, carne, uova e latte, pesci e cibi composti.
Attraverso questi ricettari ci si spalanca il mondo gastronomico
della Sicilia federiciana. La componente araba resta sempre
preponderante, in primo luogo con gli spezzatini di carne brodettati
che rivelano già nella denominazione la loro provenienza: brodo
saraceno e scapece (dall'arabo
sikbāǧ, agrodolce
all'aceto), gelatina, lemonia, sommachia, romania (con il brodetto
verde), biancomangiare, festiggia; il battuto di carne speziato
(
batutum, calco dell'arabo
mudaqqaqa) con cui si
preparano ravioli e polpettine, la spalla rivestita, il ripieno per
le torte; la pasta fresca (lasagna) e secca (tria). Gli arabi sono
spesso il tramite per il recupero di ricette più antiche, come
avviene nel caso dell'amorosa che si riconduce all'ambrosia, un
miscuglio per le libagioni a Zeus descritto da Ateneo; o della torta
parmigiana, che giunge attraverso l'Egitto, ma che risale addirittura
a modelli babilonesi, già noti al mondo greco alessandrino; o del
pollo e porcellino ripieno già presenti in Apicio, che ritornano
insieme al battuto arabo.
Non manca però l'apporto occidentale, rilevabile in primo luogo
nelle basilari modifiche che i piatti arabi subiscono nel processo di
adeguamento alle abitudini alimentari europee, nella semplificazione
dei procedimenti di cottura, sostituzione del lardo e strutto di
maiale al grasso di coda di montone, predilezione del vino nelle
salse, ecc.: così i brodetti arabi si trasformano in sapori in cui
completare la cottura di carni già avviata, o addirittura in salse
da accompagnare ai prediletti arrosti; la stessa sorte spetta anche
alle paste che da ingredienti in preparazioni di carne diventano
contorni per arrosti (la tria genovese). Del resto il Liber
preferisce eliminare le indicazioni di provenienza esotica ('di
Siria', 'di Gerusalemme') che costellano i ricettari inglesi e
tedeschi, quasi a stabilire che ormai si tratta di piatti europei, e
si contrappone volutamente alla preponderanza araba, chiamando a
raccolta nell'attribuzione dei piatti non solo regioni vicine (Puglia
e Campania), ma anche lontane (come la Marca
trevigiana) e, fuori d'Italia,
tutto il mondo occidentale, dalla Francia all'Inghilterra alla
Germania.
In particolare le impressionanti analogie con l'Inghilterra,
specialmente in presenza di prestiti arabi, ci permettono di
ricostruire una cucina normanna; mentre le coincidenze con ricette
tedesche indicano senza ambiguità il periodo svevo, ad esempio per
la 'testa di Turco', un'artificiosa preparazione in pasta ripiena che
imita una testa mozza (mentre la coloritura scura e i capelli neri ne
indicano la razza orientale), che ritroviamo nei libri di cucina
inglesi e in quelli tedeschi e che sopravvive tuttora nella
pasticceria siciliana.
Questa sontuosa cucina
meridionale si espande verso il Nord per le stesse vie seguite dalla
poesia siciliana, e ne troviamo la prova sia nel diffondersi dei
ricettari, sia spigolando nella testimonianza di lettaltre.fonti e
erati e storici.
La ritroviamo quindi in Toscana, dove, come si è visto, viene
tradotta la prima stesura del
Liber latino.
A Venezia infine viene compilato il
Libro del cuoco
(Frati, 1899) che riporta tra l'altro due ricette di Manfredi (la
"Torta di re Manfredo da fava frescha" e la "Torta
Manfreda bona e vantagiata") e una raffinata frittella di
formaggio attribuita a Federico II ("fritelle da Imperadore").
La cucina tardomedievale, che sopravvive se pur modificata per
tutto il Rinascimento, è destinata a scomparire, ma abbandonando le mense dei ricchi si nasconde
nelle pieghe della tradizione bassa e la vediamo in seguito
riemergere e raccogliere un rinnovato interesse sotto la specie di
succulente e stravaganti specialità regionali, come lo scapece, la
genovese, i pasticci di lasagne, la mostarda di Cremona, le
pies
e il
blancmange inglesi, e tante altre specialità.
Da www.treccani.it