venerdì 25 gennaio 2013

LA SCHIACCIA BRIACA

Isola D'Elba



Si dice che le origini di questo dolce risalgano al XII sec.e che sia stato forse introdotto dai saraceni , le cui incursioni nell'isola d' Elba si protrassero per circa tre secoli. Inizialmente la ricetta non prevedeva tra gli ingredienti il vino, secondo le leggi islamiche. La variazione pare che venne importata dall' usanza portoghese di gustare biscotti intinti nel vino cotto ( bizcochos borrachos)

Si tratta di un dolce particolarissimo, a pasta quasi secca, poco lievitato, senza uova e con questi ingredienti: pinoli, uvetta, frutta secca, che richiamano i sapori del vicino Oriente. La preparazione, che non prevede l’uso di lievito o grassi animali, ne fa un alimento adatto per una lunga conservazione, ideale quindi per le cambuse degli isolani che andavano per mare. L’aggiunta dell’Aleatico, che rende briaca la schiaccia e le conferisce il caratteristico colore rossastro, è una variazione ottocentesca che contribuì a renderla più gradita ai fini palati dei signori dell’epoca. Ancor più recente è l’aggiunta di Alkermes, per un ulteriore tocco di rosso.
Non esistendo per secoli una ricetta scritta, la preparazione della schiaccia briaca è stata tramandata di generazione in generazione. Fino agli anni Trenta del secolo scorso, ad esempio, al posto dello zucchero le famiglie elbane ricorrevano al miele, dolcificante che assicurava una conservazione migliore, conferendo al tempo stesso sofficità e profumo gradevole alla schiaccia. 







Ecco una variante moderna della Schiaccia Briaca

TORTA UBRIACA

gr 300 di zucchero
gr 200 di burro
gr 70 di cacao amaro oppure cioccolato fondente da tritare
gr 100 di vino rosso
gr 150 di farina
nr 4 uova
nr 1 bustina di lievito

Amalgamare lo zucchero, il cacao, il burro ed il vino rosso in un pentolino antiaderente, cuocere per pochi minuti la crema senza farla bollire.
Togliere circa 100 – 110 gr di crema e tenere da parte.
Al rimanente della crema aggiungere la farina, le uova ed il lievito, amalgamare bene, mettere in una teglia e cuocere per 40 mn a 170° (fare la prova dello stecchino per accertarsi che sia cotta).
Quando è pronta togliere dal forno, mettere su una grata, bucherellare la superficie con uno stecco versarvi sopra la crema messa da parte precedentemente aiutandovi con un cucchiaino per farla penetrare nella torta, lasciare raffreddare.

se non avete la gratella va bene anche metterla su un piatto, basterà l’accorgimento di versare la crema molto lentamente in modo che penetri molto bene


giovedì 24 gennaio 2013

LO ZUCCHERO

LA SABBIA BIANCA





Origini

Nel corso dei millenni che hanno preceduto l’era industriale, la canna ed il miele hanno costituito la sola fonte di sapore dolce nel mondo.
La canna è stata coltivata fin dall’antichità  nella Nuova Guinea e nelle isole circostanti
Di qua la canna è migrata verso le Nuove Ebridi, la Nuova Caledonia e le Isole Figi.
La si ritrova più tardi nelle Filippine, in Indonesia, in Malesia, in India ed in Cina.
E’ verso il III secolo a.C. che i mercanti indiani e persiani iniziano ad importare lo zucchero in Arabia ed in Egitto.
Gli arabi appresero dai persiani l’arte di fabbricare lo zucchero in forma solida. Il nome zucchero deriva infatti dall'arabo, e significa "sabbia".
Il clima preferito dalla canna da zucchero è quello caldo-umido e perciò venne coltivata soprattutto nei caldi paesi tropicali, solo nel VII secolo gli arabi acclimatarono la canna da zucchero nei paesi mediterranei.
E’ così che la canna si impianta nella Valle del Nilo e in Palestina.
Sotto la loro influenza la canna conquista ben presto la Siria, tutta l’Africa del nord, Cipro, Rodi, le Isole Baleari, poi la Spagna del sud.
Nell' XI sec. i Genovesi e i Veneziani presero ad importare modeste quantità di ciò che veniva chiamato
sale arabo che le Crociate resero ancora più diffuso. Fu Federico II di Svevia che provvide a far coltivare la canna da zucchero in Sicilia (ove era già stata introdotta dagli arabi), ma lo zucchero restò per molto tempo una spezia rara e preziosa, venduta dagli speziali e dai farmacisti a carissimo prezzo, come medicina in uso per sciroppi, impacchi ed enteroclismi.
La scoperta del Nuovo Mondo segna una svolta nella storia dello zucchero.
Con la scoperta dell' America gli spagnoli introdussero la coltivazione della canna da zucchero a Cuba e nel Messico, i portoghesi in Brasile, inglesi e francesi nelle Antille, in quei territori cioè dell'America centrale e meridionale che ancora oggi ne sono tra i maggiori produttori. Poiché lo zucchero delle Americhe era migliore e meno costoso, le coltivazioni spagnole e italiane scomparvero, insieme ai traffici con i territori arabi.
Nacque un fiorente traffico di importazione, che rese il prodotto, per quanto di lusso, più comune.



Nel 1575, l'agronomo francese Olivier de Serres osservò che un ortaggio comunissimo ed ampiamente coltivato, prevalentemente ad uso foraggio, la barbabietola, se cotto produce uno sciroppo simile a quello della canna da zucchero, molto dolce. L'osservazione rimase tuttavia lettera morta e lo zucchero di canna rimase l'unico disponibile ancora per molto tempo. Nel giro di un secolo, tra il 1640 e il 1750, il consumo della sostanza triplicò, incentivando il fenomeno della tratta degli schiavi dall'Africa, che venivano catturati e deportati per lavorare nelle piantagioni.
Fu nel 1747 che il chimico tedesco Andreas Marggraf riuscì a dimostrare la presenza di saccarosio dalle barbabietole. Nella seconda metà del 1700 Franz Achard, allievo di Marggraf, ideò un processo industriale per l'estrazione dello zucchero dalla barbabietola. Il primo zuccherificio sorse in Slesia nel 1802.
Nel frattempo, con l'ascesa di Napoleone, si erano intensificati i contrasti fra i francesi e gli inglesi. che culminarono, nel 1806, con il blocco delle importazioni inglesi in Francia. Per reazione, gli inglesi, padroni del mare, bloccarono le navi dirette ai porti francesi. Lo zucchero proveniente dalle Americhe diretto in Francia, per conseguenza, scarseggiò e raggiunse prezzi proibitivi. Per questo motivo la produzione di zucchero da barbabietola venne incentivato dal governo di Napoleone e vennero aperti molti nuovi stabilimenti, soprattutto in Francia.
Dopo il congresso di Vienna del 1814, lo zucchero da canna riprese a circolare, ma lo zucchero da barbabietola era molto più conveniente e la sua espansione fu inarrestabile.



 

Fu una scoperta importantissima perché i paesi dal clima freddo non potevano coltivare la canna da zucchero ma erano in grado di coltivare su larga scala la barbabietola. Il suo costo, meno proibitivo, lo rese via via più accessibile anche ai ceti più bassi e cambiò le abitudini alimentari dell'Europa.


mercoledì 23 gennaio 2013

 Lombardia

TORTA DI PATATE E MELE

DEL MONASTERO DI CAIRATE


Si tratta di un ANTICO dolce di patate la cui versione originale pare che abbia visto la luce già nel 1600 nelle cucine del Monastero di Cairate
Il dolce è senza glutine e quindi può essere mangiato anche dai ciliaci.

Ingredienti
Patate: gr 250
Fecola di patate: gr 80
Panna: gr 100
Uova: 1
Burro: gr 100
Zucchero di canna: gr 100 + 3 cucchiai per la finitura
Lievito per dolci: gr 10
Uva passa grande: gr 150
Mele pelate e tagliate a tocchetti: gr 200
Scorza di 1 limone grattugiata
Estratto di vaniglia: 1 cucchiaino (oppure i semi di una stecca di vaniglia)



Lessare le patate con la buccia, pelarle ancora calde. Accendere il forno a 200°. Sbriciolare le patate in una terrina, lasciare intiepidire e poi aggiungere l’uovo e la panna. Ridurre in purea con l’aiuto del minipimer.
In una seconda terrina montare il burro con i 100 gr di zucchero servendosi delle fruste elettriche . Aggiungere la purea di patate, la fecola, il lievito, la scorza di limone e amalgamare bene sempre con le fruste. Infine, aggiungere le uvette e le mele a tocchetti e mescolare delicatamente con un cucchiaio .
Imburrare una tortiera a cerniera da 20 cm di diametro e versare il composto. Livellare la superficie e cospargerla con lo zucchero rimasto. Infornare e cuocere per circa 30 minuti, la torta deve risultare ben dorata e soda.
Lasciare raffreddare completamente prima di sformare e servire .




 
MONASTERO CAIRATE
Il monastero benedettino di Santa Maria Assunta di Cairate fu fondato nel 737 dalla nobildonna di Pavia Manigonda, per sciogliere un voto fatto in seguito ad una sua una guarigione prodigiosa.
Il monastero diventò col tempo fra i più importanti del nord Italia, possessore dei tre quarti del territorio cairatese e di quattro mulini,centro economico e sociale di Cairate. Si trattava di un monastero fortificato, dotato di fossato. Leggenda vuole che nel monastero di Cairate dormì Federico Barbarosa, la notte prima della battaglia di Legnano. Fino al concilio di Trento infatti la vita claustrale non era d'obbligo per i monasteri e, all'interno di questi, spesso era presente lo xenodochio, ovvero la pratica di assistere e ospitare i viandanti. Centro del potere politico economico e sociale, il monastero guidava il piccolo parlamento dei capofamiglia di Cairate che nel medioevo si riunivano a intervalli regolari per decidere sulle questioni comuni come, ad esempio, l' amministrazione dei terreni nei pressi del fiume Olona. Il monastero aveva al suo interno una rigida gerarchia, ammetteva esclusivamente monache di famiglie benestanti e non dipendeva dalla diocesi di Milano ma dalla potente diocesi di Pavia, come stabilito al momento della fondazione. La badessa era nominata dalle cosiddette monache velate e tale nomina doveva essere confermata formalmente da parte del vescovo di Pavia; Gli scavi archeologici svolti nel Monastero, intorno al 1981, portarono alla luce numerosi dettagli storico architettonici delle influenze di ogni epoca trascorsa. Il chiostro, dalla rara forma trapezoidale, è la perfetta sintesi del percorso storico di questo luogo leggendario e suggestivo. L'edificio, costruito con pietra arenaria proveniente dalle cave di Saltrio e Viggiù, si slancia verso l'alto, grazie ai due piani di colonnati bianchi che si affacciano sul prato del chiostro. L'esterno presenta alcune differenze stilistiche nel porticato inferiore, che risale al XV secolo, mentre il sopralzo venne aggiunto nei primi del Settecento per investire sulla spaziosità dell'intero complesso. Nel lato est è possibile visitare alcuni dei locali più antichi, come il vecchio refettorio, oggi sala consiliare e la storica sala capitolare costruiti con una tecnica muraria massiccia e robusta, ben ancorata al terreno sottostante in acciottolato. I soffitti lignei, di grande valore architettonico, conferiscono solennità alle stanze.

TORTA SBRISOLONA


Lombardia

La sbrisolòna (anche detta sbrisulòna, sbrisolìna, sbrisulùsa o sbrisulàda) è un dolce originario della città di Mantova, ma è comunemente prodotto e consumato in Lombardia, Emilia Romagna e nel Veronese.
Il nome deriva dal sostantivo brìsa, che in mantovano vuol dire briciola, datole a causa della sua friabilità.
Si tratta di una torta con farina gialla e bianca e zucchero in parti uguali, ragione per cui in passato era detta anche "torta delle tre tazze", con aggiunta di mandorle, burro e tuorli d'uovo. La ricetta risale a prima del '600, quando pare arrivò anche alla corte dei Gonzaga.
La torta sbrisolona nasce come dolce povero, di origini contadine; un tempo, a differenza degli ingredienti attualmente utilizzati, era molto più presente la farina di mais, al posto del burro si utilizzava esclusivamente lo strutto e al posto delle mandorle venivano utilizzate le più economiche nocciole. Col passare degli anni gli ingredienti si sono raffinati seguendo il gusto degli abitanti della ricca Mantova e oggi la torta sbrisolona è molto conosciuta anche all’estero
Caratteristica inconfondibile della torta è la sua friabilità che la porta a sbriciolarsi con estrema facilità, per cui normalmente non si taglia con il coltello ma si spezza.
In Veneto viene comunemente chiamata "rosegotta"





Ingredienti:
250 gr farina bianca
250 gr farina di mais fioretto
150 gr mandorle pelate + 50 gr mandorle non pelate ( per guarnire)
200 gr zucchero
100 gr burro
100 di strutto
2 tuorli d'uovo
1 bustina di vanillina
buccia grattugiata di un limone



Tritate non troppo finemente le mandorle tenendone da parte una manciata intere e con la pelle per la guarnizione finale della torta sbrisolona.
In una  terrina capiente mettete tutti gli ingredienti, le due farine, le mandorle pelate e non macinate, il burro, lo strutto, la vanillina, la scorza del limone e i due tuorli d’uovo, lo zucchero (ad eccezione di un paio di cucchiai); lavorate velocemente tutti gli ingredienti per amalgamarli ma senza compattarli. Imburrate una tortiera di almeno 25 cm di diametro.
Distribuite l’impasto a pioggia sulla tortiera cercando di sbriciolarlo con le mani il più possibile: l’impasto non deve assolutamente essere compattato sul fondo.
Quando avrete terminato di distribuire l’impasto nella tortiera, guarnite la torta con le mandorle che avrete precedentemente tenuto da parte.
Cuocete nel
forno a 180° per circa un’ora, poi lasciatela raffreddare e staccatela dalla tortiera facendo attenzione a non romperla: cospargete la torta sbrisolona con lo zucchero avanzato e servitela. 


 


Mantova visse uno dei suoi massimi splendori in epoca rinascimentale quando Federico secondo Gonzaga, figlio del marchese Francesco secondo e della gentile sposa ferrarese Isabella d’Este, fu insignito del titolo di Duca di Mantova  dall’Imperatore Carlo quinto.
Come già fece Ludovico secondo, illuminato mecenate che amò chiamare  a sé letterati e artisti quali Leon Battista Alberti e Andrea Mantegna, Federico secondo contribuì alla  riorganizzazione della città e della sua veste architettonica, grazie alla collaborazione con Giulio Romano, ottimo allievo di Raffaello, creatore di Palazzo Te, sua dimora di svago e di “lucidi inganni”, all’epoca nascosto da un fitto bosco e dalle acque di un ora scomparso misterioso lago, dimora della sua amante Isabella Boschetti.

Giulio Romano vi affrescò la Sala dei Giganti, la Sala dei Cavalli e la Sala di Amore e Psiche, in una maestosa e sfarzosissima fusione di simbologia e mito che ogni turista appassionato potrà aver la gioia e l’interesse di interpretare.

Il 1600 vede una  Mantova ormai mutata ed impoverita da rivolte e peste. Il declino di Mantova è segnato dalla politica inetta dell’ultimo Gonzaga-Nevers decaduto per fellonia nel 1708 quando il Ducato fu ceduto alla casa d’Austria e poi annesso allo Stato di Milano.



venerdì 18 gennaio 2013

TORTA DELLE ROSE

Emilia Romagna



Questa è una torta di pasta dolce con una ricca farcitura e ricorda una brioche soffice ripiena di burro e zucchero. Il nome torta di rose deriva dall’unione delle girelle che nascono quando si taglia l’impasto farcito e arrotolato. La farcitura è composta da una grande quantità di burro e zucchero, che gli conferiscono quel sapore caratteristico che solo questa torta possiede. In questa fase è molto importante utilizzare un burro di qualità, in modo da conferire più sapore al dolce.
ingredienti:

per l’impasto:
500 gr farina bianca
1 busta di lievito di birra in busta
100 gr zucchero
1 busta di Vanillina
1 cucchiaino raso di sale
scorza grattugiata di un limone
2 uova
80 gr burro
125-150 ml latte tiepido

per la farcitura:
100 g burro a temperatura ambiente
100 g zucchero
Come prima cosa si unisce il lievito alla farina, poi lo zucchero, il sale e la vanillina, le uova, la scorza di limone ed infine il burro fuso. Si inizia ad amalgamare il tutto e poi si aggiunge via via il latte tiepido, fino ad ottenere un composto sodo ed elastico che andrà lavorato a lungo, anche una decina di minuti. Metterlo poi a lievitare per un'ora e mezza circa e intanto preparare la farcitura,montando il burro ammorbidito con lo zucchero fino ad avere un bel composto spumoso.
Dopo la lievitazione il nostro impasto avrà pressoché raddoppiato di volume.
Porlo sulla spianatoia e tirarlo fino ad avere una sfoglia di circa 35 x 50 cm. si dovrebbe tirare bene senza problemi
Spalmare la crema di burro sulla sfoglia e poi arrotolarla dal lato più lungo, e tagliarla in pezzi (almeno 10-12) di altezza più uguale possibile.

Disporre i pezzi in una teglia ricoperta di carta da forno bagnata e strizzata e far lievitare un'altra mezz'ora. 

Infornare a 200° per 25'-30'



Cenni storici

“Questo dolce vanta antichissime e nobili origini.
Nel 1490, alla corte dei Gonzaga, giunse, sposa del marchese Francesco II, Isabella d'Este.
Per onorare gli ospiti ferraresi si fece festa con molto sfarzo; vennero imbanditi sontuosi banchetti con le prelibatezze della splendente cucina rinascimentale mantovana. In occasione di quelle feste, per rendere omaggio a colei che sarà definita la "First Lady" del Rinascimento, si ideò la Torta delle Rose, un delicatissimo dolce che non aveva eguali nelle corti d'Europa.
Isabella ne fu a tal punto incantata che, in seguito, si narra predisponesse favorevolmente l'animo dei suoi ospiti con una rosa ancora calda di forno.
Creato con pochi, semplici e comuni ingredienti dai cuochi dei Gonzaga, unisce il fascino della dolcezza al toccante richiamo della morbidezza: il suo segreto è custodito nell'amore, nella passione e nella pazienza impiegati per la sua esecuzione.
La Torta delle Rose non ammette fretta, velocità od urgenze. La sua realizzazione richiama piuttosto le pause necessarie per dipingere un quadro od un affresco: dalla preparazione del fondo fino all'ultima languida pennellata.
Manipolare nel modo più appropriato e poi unire gli ingredienti richiede una predisposizione artistica nelle sequenze della preparazione.
Da Isabella d'Este a Federico II duca di Mantova a Giulio Romano il passo è breve; in quel florido e glorioso ambiente non poteva che affermarsi un dolce unico anche nel nome: la Torta delle Rose.
L'influenza di quella rigogliosità si propagò in tutto il ducato e giunse anche nei territori bagnati dal fiume Mincio nell'alto mantovano, spesso contesi ai Visconti di Milano e ai Della Scala di Verona.
Valeggio sul Mincio partecipò di questo clima e di questi umori sempre in prima persona.
Oltre 500 anni di storia testimoniano come le usanze, la lingua e soprattutto la cucina di questo territorio siano strettamente intrecciate come in un romanzo avvincente.
La Torta delle Rose, creata per rendere omaggio alla gentilezza ferrarese di Isabella d'Este, è giunta immutata sino ai nostri giorni ed ogni cittadino del gusto ne apprezzerà la sua unicità.
Assaporandola, scaturisce anche un senso di gratitudine verso tutte quelle persone grazie alle quali possiamo degustare un dolce che ha maturato oltre cinque secoli di vita, con gli ingredienti e la preparazione gelosamente conservati e tramandati per generazioni.”

Ricostruzione/rivisitazione storica di
Luigi Mattiazzi




mercoledì 16 gennaio 2013

ZUPPA INGLESE

Emilia Romagna

 

 

ZUPPA INGLESE

La zuppa inglese è un dolce al cucchiaio, antico di secoli, che pare apparve nella cucina della zona di Parma nell'Ottocento. Il dolce è a base di pan di Spagna, imbevuto di liquori quali l'alchermés o il rosolio e farcito di crema pasticcera.
Sebbene la sua origine non sia certa, la sua denominazione tradisce la derivazione dalla ricca e creativa cucina inglese del periodo elisabettiano. Originalmente composta di una base di pasta morbida lievitata, intrisa di vino dolce (infusi, poi madera, porto o sherry) arricchita di pezzetti di frutta, o frutti di bosco, e coperta da crema pasticciera custard e panna o crema di latte, double cream, il trifle sembra fosse un modo di recuperare gli avanzi dei ricchi pasti dell'epoca



Le origini del dolce italiano si collocano probabilmente nel 1500 presso la corte dei duchi d'Este quale rielaborazione, appunto, del dolce rinascimentale anglosassone trifle, considerato un po’ la madre di tutti i dolci, fatto con crema e pan di Spagna, il tutto innaffiato da bevande alcoliche (per esempio lo Sherry di Cadice).
I contatti commerciali e diplomatici con la casa reale inglese erano frequenti, ed è probabile che sia stato proprio un diplomatico di ritorno da Londraa richiedere ai cuochi di corte di riassaggiare il trifle. Lo stesso sarebbe accaduto anche in Toscana.
Nei vari tentativi la ricetta venne rielaborata dapprima sostituendo la pasta lievitata all'inglese con una ciambella di uso comune nella zone: la bracciatella. La bracciatella veniva cotta in forma di ciambella e consumata con accompagnamento di vino dolce, così come era in uso frequente anche per altri dolci, come i cantucci.
Seguendo la tesi rinascimentale, si può supporre che la creazione sia divenuta comune e che, nell'intento di portarla al rango di dolce gentilizio e non popolare come il suo cugino inglese, si sia provveduto ad arricchirlo ulteriormente sostituendo la bracciatella con il Pan di Spagna e la panna con la crema pasticcera.
Col tempo questo trifle modificato prese poi il nome di "zuppa inglese".
La presenza dei due liquori quali l'alchermés e il rosolio supporta la tesi rinascimentale, dato che sono entrambi di origine medioevale. Gli infusi di fiori erano già di gran moda nel basso Medioevo; l'Alchermes, invece, è probabilmente successivo alla riapertura delle vie commerciali con gli arabi, da cui si importava l'ingrediente che lo rende rosso: la cocciniglia. Il nome, infatti, deriva da al quermez che, appunto, significa cocciniglia. Nel Rinascimento entrambi furono noti e molto usati, ma mantennero la loro importanza sino all'800.

Oggi si prepara usando due farciture, una alla crema e una al cioccolato, creando un effetto cromatico, con il rosso dell'alchermes, di notevole impatto.



PREPARAZIONE:
Tagliate il pan di Spagna a cubetti e procedete alla preparazione delle coppe: prendete qualche pezzetto di pan di Spagna, immergetelo uno alla volta nell'Alchermes per pochi secondi e disponeteli sul fondo di ogni coppa in modo da creare uno strato uniforme. Versatevi sopra uno strato di crema pasticcera alla vaniglia, quindi uno di crema al cioccolato e completate con altri cubetti di pan di Spagna immersi nel liquore.
Riponete le coppe in frigorifero ed estraetele una decinda di minuti prima di servirle, debitamente decorate con una pioggia di scaglie di cioccolato!!!


martedì 15 gennaio 2013

Rinascimento

Torta di cilige del Rinascimento 

 

Ecco due ricette rinascimentali a confronto.

La torta di ciliegie di Plàtina  (1421-1481)

Piglia delle ciliegie, leva il nocciolo e pestale ben bene nel mortaio con delle rose rosse, poi aggiungi del cacio grattato o del cacio fresco, un poco di pepe, un poco di zenzero e quattro uova sbattute, mescola bene poi spalma di grasso una casseruola, mettici un fondo di pasta e versaci la composizione, poi cuoci a fuoco lento, e quando la levi dal fuoco versaci sopra dello zucchero che avrai sciolto in acqua di rose

Per 4 persone

200 gr di farina, 80 di burro, ½ dl d’acqua, 1 pizzico di sale, 1 kg di ciliegie, 8 cucchiai di petali di rosa rossa, 200 gr di mascarpone, 1 pizzico di pepe, ½ cucchiaino di zenzero, 4 uova, 4 cucchiai di zucchero, 2 cucchiai di acqua di rose.

Impastare la farina con il burro unendo l’acqua e il sale. Lasciar riposare la pasta in frigorifero per un’ora poi stenderla e foderare una teglia imburrata. Snocciolare le ciliegie, levare il bordo bianco ai petali di rosa e pestarli insieme alle ciliegie. Con il mascarpone, il pepe il sale lo zenzero grattugiato e le uova sbattute fare una glassa, mescolarla bene alle ciliegie e ai petali di rosa e distribuirlo sul fondo della pasta stesa. Cuocere in forno a 180° per 40 minuti poi cospargere di zucchero e spruzzarla con acqua di rose



Per fare torta di ciliege. Martino da Como (sec.XV)

Habi le cerase de le più negre che tu trovi, et cavatene fora le ossa macinarale molto bene nel mortale, et habi de le rose roscie battute molto bene col coltello, con un pocho di cascio frescho et un pocho di bon cascio vecchio, agiongendoli de le spetie, cioè canella, zenzevero, et pocho pepe, et del zuccharo; et mescolarai molto bene tutte queste cose, agiongendovi etiam tre o quattro ova secundo la quantità che vorrai fare, et con la crosta di sotto la metterai a cocere a bello agio in la padella. Et quando sia cotta gli metterai di sopra del zuccharo et dell'acqua rosata

Per 6 persone

Pasta frolla: 300 g di farina, 100 gr.di zucchero, 150 gr.di burro, 2 tuorli d’uovo, scorza grattugiata di limone

Per il ripieno: 300 gr di ciliegie snocciolate, 300 gr di ricotta freschissima, 150 gr di zucchero, 2 uova, un pizzico di cannella in polvere, un pizzico di zenzero fresco gratuggiato, 1 cucchiaio di acqua di rose.

Tritare le ciliegie, setacciare bene la ricotta e, sempre mescolando, unire le uova intere, lo zucchero, la cannella, lo zenzero, l’acqua di rose e infine le ciliegie.  Dividere in due pezzi la pasta frolla. Stenderne una parte in una teglia imburrata, versarvi il composto di ricotta e ciliegie livellandolo.
Stendere la pasta rimasta e con una rotellina formare strisce da disporre a grata sulla crostata. Mettere in forno preriscaldato a 200° per 45 minuti. Far raffreddare e servire.

 


 Tutto ebbe inizio con un committente: Ludovico Trevisan, ricco e mondano cardinale che divenne patriarca di Aquileia nel 1439 e ciambellano papale l’anno successivo. Soprannominato “cardinal Lucullo”, per la sua prodigalità nell’allestir banchetti, il prelato aveva un cuoco personale di nome Mastro Martino da Como che compose per lui un manoscritto: "Liber de arte coquinaria". Questo ricettario, specchio della gastronomia italiana del tempo, sarebbe rimasto misconosciuto se nel 1474, il letterato e umanista Bartolomeo Sacchi detto "Platina" (direttore della Biblioteca Pontificia sotto Sisto IV), non lo avesse utilizzato per la sua pubblicazione “De honesta voluptate et valetudine”, manuale del come affrontare serenamente, saggiamente e igienicamente la vita. Platina tradusse il libro del capocuoco Martino in latino classico, per cui l'opera ebbe ampia diffusione anche al di là dei confini italiani. In nemmeno cento anni apparvero oltre trenta edizioni e il libro fu tradotto in francese, inglese e tedesco.
L'opera del Platina, suddivisa in dieci capitoli secondo la tradizione classica, costituisce una preziosissima fonte di notizie sulla vita e la cucina italiana del Quattrocento. Dai suggerimenti per fare sport, all’importanza della scelta del cuoco; dal come preparare la tavola, all’ora ideale per mangiare, ai migliori metodi di cottura di ciascun alimento. La parte dedicata alle ricette, riprese da Mastro Martino, dava all'arte culinaria europea un impulso decisivo verso la gastronomia moderna.Grazie a Platina e a Mastro Martino la cucina diede l'addio al Medioevo, non c'era più bisogno di condire ogni piatto con dovizia di spezie pregiate per dimostrare quanto fosse ricco e distinto il padrone di casa. Bisognava invece cucinare, nel modo più naturale possibile, alimenti di per sé buoni e reperibili ovunque. Nel testo di Martino era inconfondibile anche l'influsso della cucina araba, non solo nelle salse che egli preparava con uvetta, prugne e uva, ma anche nella vasta gamma dei suoi dolci, che andavano dalle mele candite alla torta di mandorle. Benché la nuova cucina italiana accogliesse i cibi provenienti dalla campagna, non lo faceva però in maniera incondizionata. Rifiutava le pappe e i purè di cereali o di verdure, che allora come nel passato erano i cibi dei poveri, mentre alcuni odori oggi molto amati li respingeva come grossolani: "l'aglio e la cipolla vanno bene per i contadini, che li mangiano volentieri e a cui si addicono per la povertà della loro condizione e per il lavoro che fanno".




www.taccuinistorici.it

lunedì 14 gennaio 2013

Banchetto Rinascimentale

 

A Ferrara, resteranno memorabili i pranzi nuziali di Ercole I e Eleonora d'Aragona (1473) e di Alfonso I e Lucrezia Borgia (1501). Il matrimonio di Roberto Malatesta, figlio di Sigismondo, e Isabetta, figlia di Federico da Montefeltro, celebrato in pompa magna il 25 giugno del 1475, ci consegna da parte sua la principale fonte sulla cucina malatestiana: la famosa "lista" che ci tramanda la nota delle materie prime acquistate per il pranzo nuziale e, soprattutto, l'elenco delle portate: il menù, insomma.
Occorre premettere che il banchetto rinascimentale si articola in una successione di "servizi", che non sono singoli piatti, ma generosi buffet posti sulle tavole simultaneamente. I "servizi" si dividono in "servizi di credenza" e "servizi di cucina" (buffet freddi e caldi, per intenderci), che si alternano. Va da sè che i commensali non erano obbligati a divorare, e neppure ad assaggiare tutto. Agli altolocati e fortunati convitati al banchetto nuziale di Roberto e Isabetta furono apparecchiati quattro servizi, seguìti, per soprammercato, da una doppia "colatione doppo el pasto".
La squadra dei cuochi era composta da almeno una trentina di cuochi illustri, venuti da ogni parte dell'Europa, compresa la Scozia, la Germania e l' Albania.
L'esordio fu a base di granitiche schiacciate di pinoli e mandorle ("pinochiati" e "marzapani"), torte d'erbe e formaggio, arrosto freddo al "savore verde" (antenato diretto della nostra salsa verde) e capponi lessi al "savor biancho", una delicata salsa alle mandorle, uova e agresto. Seguirono, col secondo servizio, torte dolci-salate, prosciutto cotto nel vino, arrosto di fagiani e pavoni in salsa "di pavo" (è la nota "salsa peverada", a base di fegatelli, crosta di pane, uva passa, aceto e spezie), crostate ed anatre in "salsa ginestrina" (specie di raffinata mostarda allo zenzero e zafferano: donde il nome, che richiama il giallo della ginestra).
Dopo aver fatto rifiatare i commensali con un'insalata di radici amare, si introdusse il terzo servizio, che comprendeva storioni lessi accompagnati dal "sapore" (una salsa ottenuta dal mosto), arrosto di pesce "grosso" alle arance, ostriche, marzapani, frutta. Il banchetto si chiuse con un quarto ed ultimo servizio di cialde, frutta confettata e "calisoni": ravioli dolci farciti di pasta di mandorle. A fine pranzo, mentre si aprivano le danze, si distribuirono frutti di terra e di mare in zucchero, e si esibirono i "trionfi", di zucchero anch'essi: putti, cavalli, elefanti (simbolo araldico dei Malatesta) e quattro autentici capolavori d'arte pasticcera che riproducevano la fontana della piazza, l'arco d'Augusto, Castel Sismondo e il Tempio Malatestiano "como doveva essere fornito", cioè secondo il progetto definitivo dell'Alberti. Peccato che di questo effimero e dolce Rinascimento non si sia conservato nulla.
I banchetti rinascimentali non erano puri eventi gastronomici, ma pranzi-spettacolo e dimostrazioni di ricchezza e magnificenza. Lo spreco era perciò programmatico. Il convito nuziale di Roberto e Isabetta - dove, fra l'altro, si consumarono 8.600 paia di polli, 45.000 uova, 180 prosciutti, 40 forme di parmigiano, 13.000 arance e 120 botti di vino - costò la bellezza di 30.000 ducati: una cifra da capogiro, ma "investita" nella celebrazione di un matrimonio che era anche l'atto di riconciliazione di due potenti famiglie già mortalmente nemiche.



Da: riminiconvention.it

Accenni sulla cucina Rinascimentale

Le fonti per comprendere le abitudini alimentari del Rinascimento si possono attingere dalla fiorente “letteratura di cucina” per le classi nobili, e dagli Statuti delle città per la borghesia e i contadini.
L’arte del cucinare toccò in Italia vette senza pari in Europa, con pratiche e piatti che restarono però d’ispirazione medievale, con il perpetuarsi del gusto dolce e salato mischiati assieme, e presentati  teatralmente.
Gli addetti al servizio della tavola erano dei professionisti, e nella gerarchia il cuoco (spesso di umili origini), veniva dopo il trinciante, il bottigliere, lo scalco, cariche rivestite di solito da persone di estrazione sociale elevata. Il cuoco doveva realizzare al meglio le ricette che gli venivano ordinate, conformandosi ai gusti del padrone o dei suoi ospiti illustri, ed alla regola che privilegiava tutto ciò che era raro e costoso, in nome del fasto e del lusso che contraddistinguevano la tavola di un uomo superiore. Per gli allestimenti dei banchetti ci si avvaleva della collaborazione di artisti e artigiani tra i più noti dell'epoca, che trasformavano il pasto in una vera e propria messinscena teatrale.
Anche in questo periodo la gastronomia fu soggetta alle stesse prescrizioni religiose del Medioevo, e perciò obbligata all'alternanza dei giorni di grasso e di magro. Lo sviluppo di una cucina "magra", ricca ed elaborata, divenne perciò una sezione importantissima dell’arte culinaria del cinquecento.
Del passato restò l'abbondante uso delle spezie, anche se sensibilmente attenuato, ma leggendo i testi di cucina dell’epoca si può dire che il gusto dominante fosse quello dolce. Infatti, lo zucchero, ingrediente di distinzione sociale per la corte, opportunamente elaborato portò all’invenzione della “moderna” pasticceria e della confetteria: l’arte delle marmellate e dei dolciumi d’ogni tipo.
Se uno dei tratti sorprendenti della cucina medioevale era l’uso assai parco di latte e latticini, fu con il Rinascimento che il burro divenne finalmente una materia grassa d’importanza pari allo strutto, e formaggi d’ogni tipo assieme alla “pelle del latte”, ossia la panna fino ad allora ignorata, entrarono fra gli ingredienti delle ricette.
Dell’epoca precedente rimasero come eredità gli arrosti, le paste ripiene, le torte, i pasticci in crosta, e gli animali "come vivi" (ricomposti e rivestiti del loro piumaggio) decorati con oro o ricoperti di colori.
Un altro elemento proveniente dal passato, fu l'uso delle salse leggere, a base di frutta o di piante aromatiche, con leganti o addensanti come mollica o pane abbrustolito, farine varie, mandorle o uova.
Nella gastronomia rinascimentale italiana vi fu una grande scelta d’umidi e guazzetti, oltre ad una fioritura straordinaria di paste tirate e farcite, da superare di gran lunga la produzione straniera, che all'opposto non valorizzava la pasta nella propria cucina.
Gli agrumi rimasero elemento aromatizzante basilare, e la frutta acquistò una posizione preminente fra le pietanze servite in apertura del pasto. Verdure, legumi e insalate, godettero di una certa attenzione, acquistando un proprio ruolo, grazie soprattutto al massiccio ricorso agli aromi locali.
In quest'epoca si andò notevolmente rafforzando l'uso della carne macellata, specialmente del manzo e del vitello, e nacque una vera e propria passione per le frattaglie e le interiora degli animali.

Da: Taccuinistorici.it

TORTA GINEVRA

Torta del Rinascimento


Torta Ginevra: la ricetta dall’Archivio di Stato di Prato


E’ 24 novembre del 1407 e Ginevra, figlia di Francesco Datini, ricchissimo mercante di Prato, si sposa: in occasione di quella data i cuochi celebrano l’evento tramite una torta la Torta Ginevra, la cui ricetta è stata recentemente recuperata dall’archivio di Stato di Prato.



Per l’occasione del matrimonio il mercante non badò a spese, assunse un cuoco di fama come Mato Stinchese, che preparò questa torta di cui si erano perse completamente le tracce, ma che è stata recuperata dai carteggi dell’archivio e presentata per l’edizione 2005 di Divini Profumi.

Dall’Archivio di Stato di Prato si possono dedurre come gli ingredienti fossero: “5 libbre di rancata, 5 libbre di cedrata, 3 libbre di pinocchi netti, 1 libbra di spezie dolci fini, 1 libbra di spezie forti fini, 3 once di gharofani pesti, 3 once di gharofani sodi, 1 bottone d'argento dorato, 3 libbre di lardo insalato, 4 libbre di zuchero trito per la torta....”

Facendo le dovute proporzioni visto che 1 libbra è uguale a Kg. 0,346 e 1 oncia è uguale a gr. 28,20 possiamo riprendere in mano una ricetta antichissima ma che per gusto può alla fine risultare molto moderna. Alcuni ingredienti come il lardo possono ovviamente essere tralasciati ma il gusto di ricreare qualcosa di antico è una soddisfazione enorme. E’ una torta che assomiglia al panforte senese ma è più delicata e meno speziata.



Ingredienti Torta Ginevra: 350 g di arancia candita, 350 g di cedro candito, 210 g di pinoli, un cucchiaino di spezie varie come cannella, pepe e chiodi garofano, 2 cucchiai di acqua, 270g di zucchero di canna e 2 cucchiai di miele.

Preparazione Torta Ginevra: Tagliare molto finemente a pezzetti i canditi (sia l’arancia che il cedro). In una casseruola a parte, inserire lo zucchero, l’acqua e miele, farli sciogliere sul fuoco e poi aggiungere i pinoli e i canditi precedentemente tagliati. Mescolare bene. Una volta tolto tutto dal fuoco si pressa l’impasto in un involucro di carta da forno come se fosse un panforte. Inserirlo poi nel forno per qualche minuto e aggiungere poi in superficie le varie spezie.

                                            Ginevra Boncossi

mercoledì 2 gennaio 2013

Il Torrone

Storia del Torrone



Quando e dove è nato il torrone? La sua origine è avvolta nel mistero. Cercando di risalire il corso della storia si arriva addirittura in Cina: pare che il torrone sia nato qui, luogo dal quale proviene storicamente la mandorla.
Sarebbero stati gli arabi a portarlo nel bacino del Mediterraneo, in Sicilia, in Spagna, e a Cremona, strategico porto fluviale sul Po. Il torrone sarebbe quindi una variazione della famosa "cubbaita" o "giuggiolena", dolce arabo fatto di miele e sesamo. "Turròn" è un termine spagnolo alquanto discusso e secondo le tesi degli studiosi iberici il torrone sarebbe ad ogni modo di derivazione araba. L'inizio della produzione di torroni tradizionali in Spagna si fa risalire al XVI secolo.
In Italia, tra il 1100 e il 1150, Gherardo Cremonese tradusse il "De medicinis e cibis semplicibus", scritto dal medico di Cordova Abdul Mutarrif. Vi si esaltavano le virtù del miele e veniva citato un dolce arabo: il " turun". A Cremona, i rivenditori sostengono comunque che il torrone nacque lì, nel 1441, durante il banchetto nuziale di Bianca Maria Visconti e di Francesco Sforza, quando venne confezionato in forma di Torrazzo (l'alta torre campanaria del duomo della città), da cui avrebbe preso il nome.
Secondo un'altra tradizione infine, furono gli antichi Romani a tramandarci la ricetta di questa ghiottoneria. Nel 116 circa a.C., Marco Terenzio Marrone il Reatino citava il gustoso "Cuppedo": "Cupeto" è ancora oggi il nome del torrone in molte zone dell'Italia Meridionale.
Anche l'etimologia del nome "torrone" ci porta dallo spagnolo turròn = abbrustolito (derivato di turrar = arrostire), al latino torrere = tostare.