mercoledì 19 dicembre 2012

Il Pandoro



Alcuni studiosi pensano che il pandoro sia nato nella Repubblica Veneta del '500, quando venivano serviti sulle ricche tavole dei nobili dei dolci di forma conica, ricoperti da foglie d'oro, chiamati appunto "Pan de Oro".
Secondo altri,invece, l'origine deriva dal Nadalin, un dolce più antico, a forma di stella, che i veronesi consumavano a Natale.
La tesi però più accreditata lega la nascita del pandoro alla Casa Reale degli Asburgo.
Fin dal '700-'800 erano ben conosciute le tecniche di lavorazione del "Pane di Vienna" che sono rimaste alla base della preparazione del pandoro.
Pane di Vienna", probabilmente derivato, a sua volta, dalla "brioche" francese, d'altra parte però le caratteristiche che accomunano il pandoro e la "brioche" francese fanno pensare ad origini ben più lontane: la fonte più antica risale addirittura al primo secolo dopo Cristo, ai tempi di Plinio il Vecchio, che nei suoi scritti minori cita un panettiere di nome Vergilius Stefanus Senex che preparò un "panis" con fiori di farina, burro e olio.
La lavorazione del"Pane di Vienna" prevedeva di completare l'impasto aggiungendo una maggiore dose di burro con il sistema della pasta sfoglia, dove diversi strati di pasta vengono alternati a strati di burro, con il risultato che durante la cottura il dolce acquista volume.
Dall'Ottocento la produzione del pandoro si perfeziona a Verona a fine '800. 
La sua nascita UFFICIALE risale però al 1800. Il 14 ottobre 1884 Domenico Melegatti, fondatore dell' omonima industria dolciaria, depositò all'ufficio brevetti un dolce morbido e dal caratteristico corpo a forma di stella a otto punte, opera dell'artista Angelo Dall'Oca Bianca, pittore impressionista. 



Avvenimenti importanti del 1884
In Italia viene definitivamente abolita la tassa del macinato, dal governo guidato dal ministro Depretis.
Il 1 maggio, negli Stati Uniti, le organizzazioni dei lavoratori fissano l'obiettivo della giornata lavorativa di 8 ore.
In Gran Bretagna nasce la "Fabian Society", partito di ispirazione socialista. Tra gli aderenti più noti vi sarà George Bernard Shaw.
Formazione del dominio coloniale tedesco in Africa (Camerun, Togo, Africa Sud-Occidentale) e del dominio coloniale francese nel Tonchino che, insieme al Vietnam meridionale, viene posto sotto il governo generale dell'Indocina.
Lewis Waterman realizza la penna stilografica moderna.

Nadalin di Verona, l'antenato del Pandoro



Son tuto un simbolo de Nadal. La stela che nase quasi par miracolo taiando na bala de pasta con quatro sfrisi, el marzapan fato con i pinoi che vien fora dale pigne dela tradizion de Nadal, el zucaro e l’anese stelà che vien doparà par far el liquor.


Il Nadalin, che significa “natalizio”, è un tipico dolce veronese, poco lievitato e non molto alto, cosparso di pinoli e mandorle tostate, che ha la caratteristica forma di Stella.
Il suo aspetto di stella a cinque punte lo collega a molte leggende, che accostano la sua fama sia alla cometa dei Re Magi, sia ai raggi del sole, simbolo di rinascita dopo il buio dell'inverno.
Questo dolce diventò nel 1260 una specialità natalizia veronese detta, appunto, Nadalin con base a forma di stella a otto punte, non molto alto. Il Nadalin fu creato per festeggiare il primo Natale dopo l’investitura dei nobili Della Scala a Signori di Verona. Solo nell’ottocento il dolce cambiò forma: venne alzato, le punte ridotte a cinque .

Questo dolce è fatto con ingredienti semplici, burro, uova, zucchero, lievito di birra, succo di limone, un pizzico di sale, vanillina e vino passito, cosparso di pinoli, mandorle tostate e zucchero a velo . La sua particolarità sta nella lenta e accurata lievitazione: la preparazione del Nadalin de Verona è talmente complessa che richiede tre giorni di lavorazione e lievitazione con non meno di quattro reimpasti.
Per questo il risultato è veramente eccellente e inimitabile


Ricetta:
Versare su una spianatoia della farina a fontana e mettervi al centro: burro, zucchero, uova, lievito di birra, succo di limone, sale, vanillina e vino passito. Lavorare accuratamente l’impasto fino a che risulterà liscio ed omogeneo.
Coprire il composto con un panno e lasciarlo lievitare per almeno tre ore in ambiente tiepido.
Adagiare l’impasto in uno stampo profondo a forma di stella e cospargerne la superficie con mandorle tritate o pinoli.
Passare in forno ben caldo per almeno cinquanta minuti.
Una volta sformato, ricoprire il nadalin di zucchero a velo e lasciar raffreddare prima di servire.

lunedì 17 dicembre 2012

DEGUSTAZIONE DELLA TORTA DONIZZETTI

 

GITA A BERGAMO ALTA

Tre donne in auto ( per non parlar del cane....)

 

Sabato 8 dicembre, festa dell'Assunta. Abbiamo deciso di andare oggi a Bergam alta,  per provare la famosa torta Donizzetti. Dovevamo essere in cinque, purtroppo Novella e Gabri non hanno potuto venire. Alla fine il gruppo sarà composto da me, Fulvia, Giuli e, naturalmente, il bravo Kim.
Partiamo da Como nel primo pomeriggio.
Oggi è una giornata invernale limpida e freddissima. Ieri ha nevicato. Mentre salgo in auto ammiro i monti ancora innevati, illuminati da un pallido sole invernale.

Addio/ monti sorgenti dall' acque/ ed elevati al cielo/ cime inuguali/ note a chi è cresciuto tra voi/ e impresse nella sua mente.

In auto parliamo di cose allegre e leggere, è severamente proibito parlare di cose tristi prima di una degustazione. L'autostrada è stranamente sgombra e il viaggio è molto piacevole. Arrivate a Bergamo i vigili non ci lasciano salire alla città alta in macchina. Poco male, l'avevamo previsto. 

 
In città bassa però non si trova posteggio, anche perché c'è la partita dell'Atalanta. Fulvia prova a posteggiare in uno spazio troppo stretto ed un automobilista si affianca e resta a guardare ridendo e facendo gesti. Io vorrei cacciargli la lingua, ma soprassiedo, anche perché Fulvia non riesce a posteggiare e dobbiamo andarcene. Facciamo diverse volte il giro della città finché miracolosamente riusciamo a scovare un posto. Scendiamo allegre e ci dirigiamo verso la funicolare. Purtroppo qui non lasciano passare Kim perché non ha la museruola. Ahimé, proprio oggi Fulvia l'ha dimenticata a casa. Potremmo prendere il bus, ma pensiamo che sia uguale. E' una vera ingiustizia, perché Kim non può mordere: un “padrone” cattivo, quando era piccolo, gli ha rotto la mascella con un calcio... Alla fine dobbiamo lasciarlo in macchina, poverino, con quel freddo! E poi, come si fa a degustare senza Kim? E' lui il vero “gourmet”del gruppo!
Saliamo sulla funicolare che si sta già facendo sera. Ammiro le mura veneziane. Città Alta come la Città Proibita.
Fra una cosa e l'altra arriviamo a Bergamo alta che suonano le cinque. E vabbè, è ancora ora del tè.
Imbocchiamo via Gombito e subito ci torna l'allegria. Saliamo divertite ammirando le case e i bei negozi. Attorno a noi c'è parecchia gente intenta agli acquisti. A metà strada vediamo il bar Cavour, dove abbiamo prenotato la torta, ma decidiamo di proseguire fino a Piazza Vecchia finché c'é ancora un po' di luce. 


Arriviamo alla piazza che il cielo comincia a scurire. Magnifico l'effetto delle illuminazioni natalizie nella piazza. Ci mettiamo al centro e giriamo lo sguardo intorno. Alla mia destra il Palazzo seicentesco della Biblioteca, bianco di marmo, alla mia sinistra il meraviglioso Palazzo della Ragione, medioevale, con la Torre Civica. Davanti e dietro me le luci natalizie decorano le case. Giro su me stessa, guardo il cielo che sta diventando blu: è un effetto straordinario. Mentre ammiriamo la fontana del Colleoni un artista di strada, piuttosto bravo, intona “Te voglio bene assai”. E' una musica davvero commovente e mi si stringe il cuore.
Ci affrettiamo a visitare la basilica di Santa Maria Maggiore prima che diventi troppo tardi. Interno barocco, molto belli i soffitti dipinti. Ammiro le splendide tarsie del coro disegnate da Lorenzo Lotto e l'affresco di Luca Giordano, il passaggio dal Mar Rosso.. Uscendo non trascuriamo la Cappella Colleoni e il Battistero.
Ritorniamo sui nostri passi ed entriamo al bar Cavour, affollatissimo. Bello l'ingresso del bar, in puro stile Liberty, con le lunette affrescate. Chiediamo con trepidazione se la torta prenotata c'è. C'é! Si, che bellezza! Ci fanno strada verso una saletta con il soffitto a volta, ricavata da quello che anticamente doveva essere una cantina o un deposito, e che ora è arredata in modo molto accurato e confortevole. Arriva la torta: bella, una ciambella cosparsa di zucchero a velo da cui sprigiona un profumino invitante. Al primo assaggio ti conquista. Il sapore è delicato, la consistenza è morbida e soffice, non così soffice come la torta Paradiso, che si scioglie in bocca, è anche più umida e consistente. Sentiamo la fecola, le uova, l'aroma del maraschino e il sapore delicato dell'albicocca e dell'ananas candito. Io credo anche di sentire il gusto delle nocciole tritate. Strano, ci saranno davvero? Non tutte le ricette danno questo ingrediente....
C'è infine un giallo: io e Fulvia siamo certe di sentire il gusto delle mandorle. Ci pare che ci sia una parte di farina di mandorle, ma nessuna ricetta ne parla....Purtroppo la torta non è stata fatta nel bar e non c'è modo di sapere se abbiamo torto o ragione. Sarà per la prossima volta.


Voto unanime: 10


e bis di torta!

Mentre gustiamo la seconda fetta Fulvia si esercita fare fotografie.

Usciamo che è buio e i negozi sono tutti illuminati. Le strade sono ancora affollate di persone.
Proseguiamo per via Colleoni, incuriosite da tutte le vetrine.In via Mascheroni ci fermiamo ad ammirare lo stile rinascimentale di Palazzo Roncalli e i bei palazzi attorno. Ed eccoci infine nella Cittadella, con la sua  suggestiva piazza e il Palazzo Visconteo. E' veramente bellissimo. Usciamo verso Colle Aperto. Da qui possiamo osservare i bellissimi palazzi che circondano la città alta e, in basso, il panorama di Bergamo. Lo stadio è illuminato a giorno per la partita. Mentre guardiamo sentiamo il boato del gol dell'Atalanta. Siamo molto felici per la vittoria della nostra città ospite!
La visita è finita. Un po' a malincuore prendiamo posto sulla funicolare, affollatissima. Quasi di corsa ritorniamo dal nostro Kim, che ci riempie di feste e di scodinzoli.
Bellissima gita, bella giornata e BUONISSIMA TORTA!

Alla prossima.


TORTA DONIZZETTI

Poche le notizie storiche su questo delicatissimo dolce di origine bergamasca.


Ha la forma a ciambella ed è spolverata con dello zucchero a velo.
Probabilmente derivato dal Bussolà di Brescia , appartiene alla categoria dei dolci soffici non lievitati, composti in prevalenzq da burro, zucchero e uova,  tipo la torta Paradiso di Pavia
Ingredienti:
Burro anidro 125 gr
zucchero a velo 95 gr
nocciole tostate in polvere 30 gr
tuorli 45 gr
albume 38 gr
zucchero 8 gr
farina 00  gr 50
fecola di patate  gr 50
miele gr 5
maraschino gr 13
albicocche e ananas canditi 50 gr
 
Si prepara come una normale ciambella, lavorando il burro con lo zucchero. 
Aggiungete i tuorli e amalgamate bene.
Montate a neve gli albumi con zucchero e incorporateli lentamente al composto precedente.
Infine, aggiungetevi gradatamente farina, fecola, i canditi di albicocca e ananas, aromatizzando con maraschino e vaniglia.
Imburrate uno stampo per ciambella e versatevi l'impasto.
Passare in forno.
Fate raffreddare la torta e servitela spolverizzata con zucchero a velo. 

Scarse le notizie storiche su questa torta. Si sa solo che essa è dedicata al celebre compositore bergamasco Gaetano Donizzetti, morto nel 1848. Si presume, quindi, che questa torta sia stata inventata dopo la metà del 1800, ma tutto può essere.

Donizetti nacque a Bergamo il 29 novembre 1797 da una famiglia di umili condizioni. Quinto di sei figli, rivelò ben presto una grande attitudine alla musica e nel 1806 venne ammesso alle "Lezioni caritatevoli di musica" dirette e fondate da Simone Mayr, con lo scopo di poter preparare i bambini per il coro e impartire loro delle solide basi musicali. Fu Mayr che, intuite le potenzialità del ragazzo, decise di seguire personalmente la sua istruzione musicale in clavicembalo e composizione. Nel 1830 Donizzetti raggiunse fama e successo con l'opera lirica “ Anna Bolena”. Scrisse in totale 69 opere liriche e inoltre brani di musica sacra e da camera. 
Morì, dopo una vita travagliata, nel 1848. Ci ha lasciato capolavori assoluti come L'elisir d'amore, Lucia di Lammermoor e Don Pasquale. Donizzetti scrisse l’imbandigione della tavola in diverse opere, ma i suoi spunti culinari furono influenzati sia della povertà sofferta in gioventù che dalla fretta espressiva.
Tra i vari aneddoti che lo riguardano, c’è n’è uno che lo vedrebbe seduto a tavola con Rossini.
Il pesarese, constatando le profonde amarezze sentimentali del suo ospite bergamasco, avrebbe  consigliato al cuoco di preparare una ricetta semplice, veloce ma dolce. Si dice che la torta incontrò i favori dei musicisti, tanto da meritare di essere dedicata proprio a Donizetti. Naturalmente questa, come tutte le leggende dedicate ai dolci, è pura invenzione.

venerdì 7 dicembre 2012

Ancora Conventi

Non solo in Sicilia, ma ovunque, nel resto d'Italia e in europa, si sviluppa l'usanza di vendere dolciumi e preparati alimentari nei conventi, dove solitamente la materia prima non mancava.
La pasticceria dei conventi, ad es., è sempre stata famosissima in Spagna: ricordiamo le prime ricette della cioccolata, elaborata proprio dai monaci spagnoli.
Tra i dolci dei conventi spagnoli più famosi vi sono le yemas di Avila, dolcetti a base di uova e zucchero del monastero di Santa Teresa ad Avila, i dolci confezionati dalla suore Clarisse, le yemas di San Leandro, a Siviglia, e i dolci della Concepciòn, del convento di Santa Clara ad Alcazàr de San Juan (Càceres).
Ancora oggi sono molti i dolci che vengono commercializzati fuori dai monasteri o il cui nome prende spunto dalla vita religiosa. Huesos de santos sono pasticcini di marzapane, gli alfajores sono antichissimi dolci di frutta secca miele e spezie, i polvorones sono dolci a base di mandorle tritate e, tipici del Natale, i matecados sono a base di farina, strutto, uova e zucchero. A Madrid, nel mese di dicembre, si svolge una fiera annuale dei prodotti di pasticceria tipici dei conventi di clausura.
Chiunque abbia visitato il Portogallo ne avrà probabilmente riportato il ricordo dei  pastéis de nata, venduti oggi nell'omonima pasteleria e la cui ricetta è nata nel vicino e magnifico monastero dos Jerònimos.
Ma di dolci, in Portogallo, ce ne sono tanti, e curiosi., proprio come i pastéis di Belém, che nascono dalle sapienti mani delle monache nei tanti e splendidi conventi del paese, e da là si diffondono.
Dolci semplici ma sorprendenti, quasi sempre a base di uova, tante uova, talvolta quasi solo uova, anzi tuorli; e pochi altri ingredienti, mandorle, cannella, scorza d'agrumi, occasionalmente latte, panna o formaggio, e molto zucchero, di solito sotto forma di sciroppo. Si dice che l'overdose di tuorli derivi dal fatto che nelle lavanderie dei conventi si faceva dispendio di albumi perché si usavano per inamidare i tessuti. Come che sia, da questo giallo profluvio derivano pasticcini, budini e dolcetti che, prima venduti direttamente nei conventi, si sono poi "laicizzati" diventando partimonio comune dei tanti forni e delle tante pasticcerie del paese. E non è un caso che molti di questi dessert hanno nomi che evocano il cielo, il paradiso, gli angeli.
Basti pensare che uno dei più celebri gastronomi e autori di ricette portoghesi era un abate: Manuel Joaquim Machado Rebelo, meglio noto come Abade de Priscos, vissuto tra il XIX e il XX secolo e creatore del Pudim "Abade de Priscos", il budino che porta il suo nome, a base di tuorli e sciroppo di zucchero, aromatizzato con cannella e Porto. I papos de anjo (lett. gozzi o chiacchiere d'angelo),  la cui ricetta sembra risalire al 1300-1400, sono davvero singolari: i tuorli vengono semplicemente montati e poi messi in formine circolari e infornati. Una volta cotti, vengono immersi in uno sciroppo di acqua, zucchero e vaniglia e lasciati intridere. Gli ovos moles di Aveiro sono un composto di uova e zucchero usato per farcire delle sottili sfoglie a forma di conchiglia.
Famosissime, e veramente deliziose, le queijadas de Sintra, tartellette dalla pasta sottile ripiena di una crema di formaggio fresco con uova, zucchero e cannella. La loro è una lunga storia che ci riporta almeno al XIII secolo. Notevoli anche i dolci conventuali dell' Alentejo, come l'encharcada del convento di Santa Clara, a base, neanche a dirlo, di tuorli, sciroppo di zucchero e cannella, ma prodotta in tutta la regione con alcune varianti; il fidalgo, con ingredienti analoghi ma leggermente bruciacchiato, come una crème brûlée, una volta sfornato, e il sericaia o sericà, una sorta di torta con tuorli e albumi montati, latte, farina, cannella e scorza di limone.
In Francia si dice che siano state le suore della Visitazione di S.Marie a Niort a iniziare la produzione dell'angelica candita. Dalla Bretagna, paese del burro salato, nasce la ricetta del caramello al burro salato con mandorle noci e nocciole. Dalle monache di Provenza, invece, nasce la tradizione dei frutti canditi di Apt, pare che la produzione sia iniziata proprio in concomitanza col soggiorno dei Papi ad Avignone. Sempre legata alla Provenza, viene da Aix l' usanza del calisson, un dolce di pane azimo con un cuore morbido di mandorle e melone candito, che veniva distribuito all'inizio del sec. XVII al posto delle ostie, durante la comunione, per evitare le epidemie ( !).
L'anice di Flavigny è una caramellina di zucchero con un seme di anice nel suo interno. Ne dobbiamo l'invenzione alle suore Orsoline che, nel XVII sec. iniziarono a dedicarsi alla preparazione dell'anice candito.
Fu creata invece dalle suore di Orléans la prelibatissima cotognata, pasta di mele cotogne, sempre presente sulle tavole di re e principi.
Vengono invece dall'Austria la "Originale Benediktiner-Torte" di St. Göttweig, ancor oggi preparata secondo un'antica ricetta risalente al 1401,  i cornetti del convento di Klostergipfel, biscotti a base di cioccolato e noci, e i deliziosi dolcetti "Lebkuchen".

Non solo dolciumi, ma prodotti alimentari in genere vengono dai conventi del nord dell'Europa. Famosissimo il liquore prodotto dai monaci certosini di Chartreuse, in Francia, nelle due versioni "Gialla" e "Verde".
Nei monasteri di Belgio e Olanda si producono ancora oggi ottime birre. Distillati di frutta, pane dei canonici di San Florian, salsiccia di cervo di St. Lambrecht o liquore di farro dell'abbazia di Zwettl provengono dai conventi austriaci.
Ovunque, inoltre, si producono ancora miele, marmellate e distillati.
 

martedì 4 dicembre 2012

Dolci dei Monasteri Palermitani

 A Palermo, ogni monastero aveva la sua specialità.
I Cannoli più rinomati venivano preparati al monastero delle suore di Santa Maria di Oliveto, detto Badia Nuova. Oltre ai cannoli, per Carnevale si confezionavano le " Teste di Turco" al cioccolato e, nel periodo pasquale, le famosissime Cassatelle e i "Pupi cu l'Ova", un impasto decorato con confettini colorati in cui si inseriva, tradizionalmente, un uovo sodo.


Il monastero di Santa Elisabetta era noto per le Ravezzate, dolci fritti ripieni di ricotta. Per Natale si confezionavano, invece, i tipici Nucatoli, dolci a base di noci.
Dietro alla Cattedrale, in piazza Settangeli esisteva, fino al 1860, l'omonimo monastero, rinomato per i "Pantofoli", un impasto di farina, zucchero e mandorle aromatizzato con miele, succo d'arancia e cannella.


Per la ricorrenza dei defunti si confezionavano "l'Ossa di Mortu", biscotti ovviamente a forma di ossa e scheletri.

Nel periodo pasquale era uso mangiare la Cassata, la più celebre e prelibata era quella delle monache di Valverde.
Il miglior "Pan di Spagna"? Quello delle suore domenicane al Convento del Monte di Pietà, in via Alloro!

Dolci curiosi erano le "Feddi di Cancillieri" (dolcetti di pasta mandorla ripieno di crema e marmellata di albicocche), dove per "feddi" erano intese le natiche. Un nome che di potrebbe tradurre in " Culo del Cancelliere", dove in realtà il povero cancelliere di cui si gustavano le natiche era il buon benefattore Matteo Ajello, cancelliere di Guglielmo II, che nel XII sec. fondò il monastero delle monache benedettine, un tempo situato dietro il Palazzo Belmonte Riso ( oggi distrutto dai bombardamenti dell' ultima guerra).
Che in un monastero si producessero dolci tanto licenziosi non deve far pensar male: la tradizione vuole che questi dolci derivino da antiche usanze pagane che riproducevano il sesso femminile, probabilmente un' offerta votiva alla dea della fertilità.
Così pure legati ad antichi rituali pagani erano le "Minne di Vergini", notissimo dolce a forma di mammella, con l'aggiunta di una maliziosa ciliegina candita a fare da capezzolo. Questo pasticcino squisito era la specialità delle suore del monastero di S.Maria delle Vergini, che si divertivano a scherzare sul nome della badia.

Famosissima la pasta reale, o pasta di mandorle, delle suore del convento di Martorana, con cui si preparavano i famosi frutti, regalati ai bambini al 2 novembre, oppure le pecorelle pasquali.
Frumento ammollato e lessato, unito ad una crema di ricotta e canditi, era la celebre "Cuccia", dolce tradizionale del giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, e a farlo erano le suore del Conservatorio di S. Lucia.


Nella badia della Concezione si confezionavano invece i " Moscardini", biscotti a forma di dito, aromatizzati con cannella, che si consumavano per i festeggiamenti di Santa Rosalia.


Le suore del monastero delle Stimmate producevano invece le "Sfince", specie di tortelli fritti nell'olio, semplici o anche con farcitura di crema di uova e panna.



Da Panormus.it






lunedì 3 dicembre 2012

Dolci dei Monasteri Siciliani

 Il ruolo svolto dai monasteri femminili nello sviluppo dell’arte dolciaria – naturalmente non solo di quella siciliana - è stato di fondamentale importanza. Dal XV al XIX secolo, prima della nascita delle vere e proprie pasticcerie, i principali dolci che si preparavano nel territorio dove sorgevano i monasteri sono stati quasi tutti presi in rassegna e molto spesso rielaborati dalla competenza e dalle abili mani delle suore. Le quali, a volte, spinte dal desiderio di conquistare la meraviglia e la gratitudine delle personalità destinatarie delle loro prelibatezze, cominciarono a creare anche dei prodotti completamente nuovi. Infatti, la consuetudine di preparare dolci all’interno dei conventi femminili era nata dall’esigenza delle suore di contraccambiare in maniera elegante e significativa favori e i servizi ricevuti, solo molto più tardi diventerà un'attività commerciale. I beneficiari delle loro specialità erano vescovi e prelati della zona di appartenenza; confessori personali; medici e professionisti con i quali molto spesso dovevano - malgrado la clausura - entrare in contatto. I dolci, con i loro simboli rituali e il forte legame con il calendario liturgico, costituivano sempre i migliori regali che le monache potessero fare ai loro benefattori. E poi, considerato il costo proibitivo dello zucchero e delle materie prime che occorrevano, i dolci dei conventi avevano all’epoca un valore ancora più prezioso. Le suore pasticcere erano quasi tutte figlie cadette di famiglie nobiliari e benestanti che a causa dell’imperante principio del maggiorascato erano state costrette a prendere i voti. A differenza dei fratelli minori che avevano la facoltà di intraprendere oltre alla scelta monastica – non di clausura! – anche la carriera militare, per loro esisteva solo la violenta sistemazione nei conventi. Quindi, per la maggior parte delle suore, praticare l’arte dolciaria rappresentava l’unica forma di libertà dentro le rigide regole della vita monastica. Gli ambienti della cucina all’interno dei monasteri femminili riservati e attrezzati per la produzione dolciaria, sono, quindi, i primi veri e propri laboratori di pasticceria della storia. La specializzazione dolciaria all’interno dei monasteri femminili segna quindi l’inizio della cosiddetta pasticceria moderna: il dolce, oltre a soddisfare il palato, tenta adesso di sedurre anche la vista e la fantasia. Rispetto ai dolcieri del passato, le monache pasticcere iniziano a prestare molta attenzione anche alla forma e all’estetica, decorando in maniera artistica con glassa e frutti canditi ogni dettaglio dei propri dolci. Siamo anche storicamente nel cuore della svolta epocale della pasticceria: infatti, dopo la seconda metà del 1400, l’impiego dello zucchero ha preso il sopravvento sul miele diventando l’ingrediente principale delle vecchie e nuove specialità dolciarie, e la Sicilia, come abbiamo già visto, è la prima produttrice di zucchero del territorio nazionale. Con il trascorrere del tempo e il mutare della società, la produzione dolciaria dei monasteri femminili, nata come semplice diletto e fabbisogno personale, diventa anche attività commerciale, e cambia anche l'organizzazione dei conventi, per adeguarsi alle nuove esigenze. I dolci venivano serviti al pubblico tramite un' apposita ruota. I dolci, pagati in anticipo per mezzo di una paletta spinta fuori dalle grate, venivano ordinati e preparati quasi istantaneamente, anche perchè ogni convento aveva le sue specialità, che venivano confezionate in occasione delle feste. Per far fronte alla mole di lavoro pesante che si è venuto a creare, come accendere i forni, pulire le teglie, impastare e preparare le materie prime, si fanno entrare le cosidette "converse" o suore laiche, non legate da voti religiosi.
L'affermazione dei monasteri siciliani, e la relativa produzione dolciaria, continuerà in sicilia fino alla seconda metà dell'Ottocento, quando lo Stato Italiano esproprierà i beni ecclesiastici. A sopravvivere, dopo l’unità d’Italia, grazie a particolari situazioni burocratiche ed ereditarie, saranno pochi conventi.
Da duciezio.it

venerdì 30 novembre 2012

Torta Zonclada

 La zonclada è un dolce trevigiano medioevale, scomparso nei secoli successivi e riscoperto dallo storico trevigiano Angelo Marchesan che ne diede ampio resoconto nella sua ponderosa ricerca storica intitolata “Treviso Medioevale”, pubblicata nel 1923. Dagli antichi documenti questo dolce risulterebbe molto prelibato, usato anche come dono delle autorità a personalità in visita a Treviso. Circa la sua composizione, Marchesan scrive che questo dolce era a base di latte intero, con aggiunta di altre sostanze imprecisate, ben cotto, del peso di una libbra e venduto a sei denari piccoli ogni zonclada. Tutto qui. Nella seconda metà del secolo scorso, il gastronomo trevigiano Giuseppe Maffioli, approfondendo le ricerche su questo dolce, ritenne di averne trovato l’antica ricetta, che prevedeva l’impiego di 10 caciottine fresche, formaggio grasso grattugiato, il tutto ben pestato e amalgamato e unito a 40 uova e a 40 bicchieri di latte fresco. Si passa il tutto per il setaccio, si aggiungono 2 libbre di zucchero e 4 once di acqua rosata, 1 libbra di burro fresco, e una e mezza di uva passa e si prepara la farcia. Poi si prendono 2 libbre di farina bianca, 4 tuorli d’uovo, 4 once di burro e si fa una pasta. Tirata la pasta, si fodera con questa una pentola ben unta, vi si mette dentro la farcia prima preparata, si copre con la stessa sfoglia di pasta e si fa cuocere, spolverandoci infine sopra dello zucchero.
Verso gli anni ’70 del secolo scorso, fu sempre Giuseppe Maffioli a dettare una moderna ricostruzione dell’antico dolce, scrivendo la seguente ricette: “Mescolare mezzo chilo di ricotta con 2 uova, 40 g di burro fuso, 100 g di zucchero, 50 g di uvetta sultanina, altrettanto cedro candito a cubettini, un cucchiaino di cannella. Farcire una tortiera di pastafrolla e passare al forno per circa 30 minuti. Servire tiepido o freddo. Volendo, coprire lo stampo di pastafrolla con listarelle, tipo crostata o con un disco di pastafrolla, con dei tagli praticati con la rotellina. Volendo, aromatizzare con un bicchierino di rum e con rapatura di limone o di arancia.



martedì 27 novembre 2012

I Monasteri

 

Ci sono parecchi motivi per cui oggi si può affermare che l’arte culinaria europea e la relativa educazione alla tavola, abbiano avuto origine tra le mura dei monasteri e delle abbazie medioevali.
Queste furono le prime comunità ad occuparsi del senso e dello scopo dei cibi, svolgendo la doppia funzione di ospedale e di ricovero.
La medicina era cosa del clero e gli “scriptoria” rappresentavano i baluardi della ricerca. Poveri, malati, principi, laici, ecclesiastici, commercianti e pellegrini, bussavano frequentemente alle porte dei monasteri in cerca di ospitalità e aiuto (le locande erano infatti rare). Indispensabile per conventi ed abbazie era avere dispense ben fornite, il cui approvvigionamento arrivava sia dalle proprietà terriere che dalle "decime" del contado. In queste piccole isole autonome si svilupparono quelle tecniche agricole, mediche e alimentari che diedero vita alle fondamenta delle cucine "locali".
In che cosa consisteva l'alimentazione giornaliera di un monaco? Per esempio, la Regola di San Benedetto prevedeva un pasto al giorno e alla sera una leggera "collazione" (da Collazioni, la raccolta di testi letti durante questo pasto). In pratica però, già dal IX sec. le quantità di cibo consumate divennero notevolmente superiori per un'applicazione più elastica della Regola che precisava: "Noi rimettiamo al giudizio e al potere dell'abate di aggiungere qualche cosa se è il caso". Nei giorni di festa gli alimenti a disposizione del monaco aumentavano ancora: di un quarto i cibi, della metà le bevande, e anche se c'erano momenti di digiuno e giorni dediti al mangiar di magro, in alcuni monasteri il numero delle festività arrivava fino a 156, per onorare oltre alle

classiche ricorrenze religiose anche i "patroni" locali.
Ma all’interno delle comunità monastiche da chi erano ricoperti i vari ruoli? Dalla nobiltà provenivano abati e badesse, mentre la cura dei campi, delle cantine e delle stalle era affidata ai fraticelli e ai semplici laici. A cucinare pensavano quei monaci e quelle monache che sapevano rielaborare le indicazioni dietetiche rintracciate nei vecchi manoscritti. Nacquero così i primi appunti e le prime raccolte di ricette. I monasteri, per far fronte al loro impegno spirituale e di assistenza medica, svilupparono però, quasi automaticamente, una sorta di cucina salutare. Gli orti ricchi di spezie, erbe medicinali ed ortaggi, assieme ai vigneti, ed agli stagni, furono importanti fonti di risorse alimentari. Le conoscenze degli effetti salutari delle erbe, confluirono progressivamente nella cucina quotidiana, facendo diventare consuetudine il somministrare medicamenti con il cibo. Le pietanze, di solito insipide, dopo tali misture, acquistarono in sapore e fu proprio questo effetto secondario, molto apprezzato, che fece scoccare la scintilla creatrice dell’arte culinaria.

Da taccuinistorici.it

Storia del Marzapane

I progenitori del marzapane sembra siano stati in epoca etrusco-romana dei dolcetti di mandorle che erano offerti alle divinità, ma la sua ricetta, realizzata con pasta di mandorle dolci, albume d'uovo e zucchero, risale al XIII-XIV sec.
Il marzapane dall'arabo "marzaban", era un'unità di capacità in uso a Cipro ed in Armenia quale sottomultiplo del moggio. Come accadde per l'anfora, per la giara o per la botte, l'unità di misura cedette il suo nome al contenitore tarato sulla misura stessa. Questa scatola di legno leggero (tipo quello dei setacci) dotata di un coperchio, venne utilizzata per usi diversi. Per racchiudere la corrispondenza o i documenti importanti (da questo il modo di dire "aprire i marzapani" nel senso si svelare segreti), ma anche per spedire speciali dolci prodotti a Cipro, confezionati con farina, pasta di mandorle ed altri ingredienti. Dato che questi dolci prendevano la forma della scatola ed erano simili a pani, il nome dell'involucro passò al contenuto. A Venezia, grazie alla relativa facilità con la quale era possibile reperire lo zucchero, già nel XIV secolo i pasticceri erano famosi per l'abilità con cui riuscivano a ricavare dal marzapane figure e sculture di ogni genere.
Forse la più antica e famosa preparazione fatta con questa pasta è la Frutta di Martorana, che vide la luce ufficialmente a Palermo, nel convento annesso alla chiesa eretta durante il 1143 da Giorgio d'Antiochia, alto ufficiale del re. Con il marzapane le suore confezionavano per la festa di Ognissanti piccoli dolci, che imitavano in modo sorprendente frutti d'ogni tipo dai colori vivacissimi, ottenuti grazie alla gomma arabica che permetteva di fissare le tinte vegetali derivanti da rose, zafferano, pistacchio ecc. L'impasto veniva chiamato anche "pasta reale" in quanto degno di un re: nella fattispecie il normanno Ruggero II re di Sicilia.
Nel 1193 ca. la nobildonna Eloisa Martorana fece costruire un monastero benedettino accanto alla chiesa ed al convento, e così, in suo onore, sia il complesso edilizio che i dolci preparati dalle monache assunsero il nome "della Martorana". Con il passare del tempo ogni ricorrenza religiosa si guadagnò uno speciale soggetto di marzapane: pecorelle per Natale, cavallucci per Sant'Antonio, agnelli per Pasqua.
Il successo di questi dolcetti spinse la corporazione dei Confettari a tentare di ottenere il monopolio della loro produzione. Lo scopo venne raggiunto nel 1575 con l'intervento del sinodo diocesano di Mazara del Vallo, che proibì alle religiose la preparazione della Frutta di Martorana perché "arrecava troppa distrazione al raccoglimento liturgico". 



Le Mandorle

I Greci portano in Sicilia le mandorle la vite e l' ulivo, e soprattutto le nuove tecniche di coltivazione della terra.
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Successivamente il suo uso si diffuse nelle colonie greche. Molto presto divenne uno degli ingredienti della cucina siciliana, sia dolce che salata. Soprattutto utilizzate per la preparazione di squisiti dolci ( torroni, torte, mandorlati e confetti), si traeva dalle mandorle anche un olio che, a partire dal Medioevo, sostituiva il più costoso olio di oliva.
All’inizio del secolo scorso la provincia di Agrigento era il primo produttore mondiale e la mandorla, riconosciuta come prodotto tipico siciliano nella lista dei prodotti agroalimentari italiani, rappresentava la principale fonte di reddito. Venivano coltivate circa 752 specie.
La massima diffusione si ebbe attorno al 1960 con circa 200 mila ettari di terreno impiantati a mandorleti. Di questo frutto nulla veniva perduto: la legna della potatura serviva ad alimentare i forni per la cottura del pane, con il mallo esterno si lavorava un tipo di sapone molle chiamato "scibina", il guscio veniva utilizzato per alimentare i bracieri in casa.
Agrigento non detiene più questo primato che tuttavia si sta cercando di recuperare. In primavera si svolge in questa città la sagra del "mandorlo in fiore" che ricopre la Valle dei templi di un delicato manto bianco e rosa simile a quello di una sposa che annuncia la primavera.
Se la festa dei mandorli ad Agrigento è la più conosciuta non bisogna dimenticare, in Sicilia, la bellezza delle coltivazioni delle campagne di Noto, nel siracusano. Da questa zona provengono i frutti più profumati, quelli più ricchi di proteine e di essenze e tra tutte le varietà una particolare menzione merita la Pizzuta di Avola, la più elegante tra tutte le mandorle, impareggiabile per forma e gusto. Piattissima, ovoidale e regolare è perfetta per la confetteria più fine ma anche per la preparazione dei dolci siciliani.
Da non dimenticare è il latte di mandorla, una bibita molto gustosa che si prepara con mandorle dolci e zucchero.

lunedì 26 novembre 2012

La Cucina ai tempi di Federico II

 

Tratto da un testo di Anna Martellotti
Se la nuova civiltà alimentare dell'Europa tardo medievale, fiorita con la ripresa economica e commerciale dopo la crisi dell'anno Mille, nacque dalla sintesi delle due componenti latina e germanica (cereali e carni), sotto il profilo più squisitamente gastronomico è in palese debito con la grande tradizione arabo-persiana che si era sviluppata dopo l'insediamento della dinastia abbaside in Iraq.
Per il tramite arabo giunsero infatti in Europa, insieme a nuovi prodotti (come lo zucchero, il riso, gli agrumi, alcune verdure e inusitate miscele di spezie), i grandi piatti aromatizzati e colorati della cucina orientale a soddisfare il desiderio di lusso e di esotismo, mentre la dietetica analizzava i più indovinati accostamenti di ingredienti.
La cucina araba trovò fertile terreno in Sicilia, un paese di grande tradizione alimentare fin dall'epoca degli insediamenti greci, che in quasi due secoli di dominazione musulmana ha sperimentato un proficuo 'bilinguismo alimentare', e venne poi facilmente trasmessa dalle popolazioni autoctone ai normanni, assai inclini all'epoca alle mode orientali, non da ultimo per la vicinanza della Scuola medica di Salerno, che si era aperta assai presto agli influssi arabi con le traduzioni di Costantino Africano (m. 1087).
Giovanni di Salisbury durante una sua visita in Puglia, forse tra il 1155 e il 1156 al seguito del papa Adriano IV, invitato a cena da un non meglio identificato "dives Canusinus", si scandalizzò della ricchezza cosmopolita dell'imbandigione, indicando la provenienza delle specialità da Bisanzio e dai paesi arabi del Vicino Oriente e dell'Africa.
I nuovi piatti vennero esportati in Inghilterra, probabilmente durante il regno di Guglielmo II di Sicilia (1166-1189, il quale aveva sposato nel 1177 Giovanna figlia di Enrico II d'Inghilterra), come dimostrano due ricettari anglo-normanni pieni di arabismi che, in seguito tradotti, formano il nucleo dei più antichi libri di cucina inglesi.
Ma sarà sotto Federico II che vedremo attuarsi una sintesi coerente dei diversi elementi, con un'indiscutibile presenza di ricette arabe rivisitate secondo i gusti occidentali, con un occhio agli arrosti germanici, senza rinunziare alla tradizione latina nella predilezione per i farinacei e le verdure. Questa cucina, che ha l'ambizione di presentarsi come genuinamente europea, trova la sua più perfetta codificazione nel Liber de coquina, redatto certamente nell'ambito della corte, attraverso una serie di scritture e di rimaneggiamenti in cui si riflettono i diversi aspetti della personalità dell'imperatore, che ricrea nella sua corte i cenacoli colti e sfarzosi dei grandi califfi di Baghdad, centri di poesia e di discorsi sulla letteratura, dove anche il cibo diviene oggetto di dotte disquisizioni e di garbate narrazioni; che ostenta sul modello arabo una conoscenza di prima mano dei procedimenti culinari e firma una ricetta di cavoli ("caules secundum usum imperatoris").
 
Alla volontà di dotare la corte e tutto il Regno di una raccolta di ricette in volgare come prosecuzione delle ricette normanne, si collega il ricettario conosciuto come Meridionale A.
L'atteggiamento scientifico della mentalità di Federico si riflette invece nell'attenzione per la dietetica e la conseguente scelta di seguire uno stretto regime alimentare, con grande scandalo dei suoi detrattori, che lo accusavano di rinunziare al cibo solo per motivi di salute e non per conquistarsi il paradiso.
Agli interessi dietetico-sanitari si ricollega l'idea di trasformare un'ostentatoria raccolta di leccornie e di piatti speciali, particolarmente sbilanciata nell'imitazione della gastronomia araba, in un manuale di cucina di impostazione scientifica che rifletta le caratteristiche della nuova cucina europea, redatto in latino e rivolto non più al Regno, ma all'Impero, o forse a tutto l'Occidente. Una prima versione, basata essenzialmente sul Meridionale A, ma ampliata inserendo all'inizio un trattato sulle verdure e a conclusione una sezione di cibi per malati (ambedue ispirati alla trattatistica medica), è andata perduta, ma se ne conserva una traduzione in toscano: il Libro della cocina (Zambrini, 1863). Un successivo tentativo sfocia nella redazione finale del Liber de coquina, in cui tutte le preparazioni risultano classificate secondo le materie prime, suddivise in cinque capitoli sul modello della trattatistica medica: verdure, carne, uova e latte, pesci e  cibi composti.
Attraverso questi ricettari ci si spalanca il mondo gastronomico della Sicilia federiciana. La componente araba resta sempre preponderante, in primo luogo con gli spezzatini di carne brodettati che rivelano già nella denominazione la loro provenienza: brodo saraceno e scapece (dall'arabo sikbāǧ, agrodolce all'aceto), gelatina, lemonia, sommachia, romania (con il brodetto verde), biancomangiare, festiggia; il battuto di carne speziato (batutum, calco dell'arabo mudaqqaqa) con cui si preparano ravioli e polpettine, la spalla rivestita, il ripieno per le torte; la pasta fresca (lasagna) e secca (tria). Gli arabi sono spesso il tramite per il recupero di ricette più antiche, come avviene nel caso dell'amorosa che si riconduce all'ambrosia, un miscuglio per le libagioni a Zeus descritto da Ateneo; o della torta parmigiana, che giunge attraverso l'Egitto, ma che risale addirittura a modelli babilonesi, già noti al mondo greco alessandrino; o del pollo e porcellino ripieno già presenti in Apicio, che ritornano insieme al battuto arabo.
Non manca però l'apporto occidentale, rilevabile in primo luogo nelle basilari modifiche che i piatti arabi subiscono nel processo di adeguamento alle abitudini alimentari europee, nella semplificazione dei procedimenti di cottura, sostituzione del lardo e strutto di maiale al grasso di coda di montone, predilezione del vino nelle salse, ecc.: così i brodetti arabi si trasformano in sapori in cui completare la cottura di carni già avviata, o addirittura in salse da accompagnare ai prediletti arrosti; la stessa sorte spetta anche alle paste che da ingredienti in preparazioni di carne diventano contorni per arrosti (la tria genovese). Del resto il Liber preferisce eliminare le indicazioni di provenienza esotica ('di Siria', 'di Gerusalemme') che costellano i ricettari inglesi e tedeschi, quasi a stabilire che ormai si tratta di piatti europei, e si contrappone volutamente alla preponderanza araba, chiamando a raccolta nell'attribuzione dei piatti non solo regioni vicine (Puglia e Campania), ma anche lontane (come la Marca trevigiana) e, fuori d'Italia, tutto il mondo occidentale, dalla Francia all'Inghilterra alla Germania.
In particolare le impressionanti analogie con l'Inghilterra, specialmente in presenza di prestiti arabi, ci permettono di ricostruire una cucina normanna; mentre le coincidenze con ricette tedesche indicano senza ambiguità il periodo svevo, ad esempio per la 'testa di Turco', un'artificiosa preparazione in pasta ripiena che imita una testa mozza (mentre la coloritura scura e i capelli neri ne indicano la razza orientale), che ritroviamo nei libri di cucina inglesi e in quelli tedeschi e che sopravvive tuttora nella pasticceria siciliana.
Questa sontuosa cucina meridionale si espande verso il Nord per le stesse vie seguite dalla poesia siciliana, e ne troviamo la prova sia nel diffondersi dei ricettari, sia spigolando nella testimonianza di lettaltre.fonti e
erati e storici.
La ritroviamo quindi in Toscana, dove, come si è visto, viene tradotta la prima stesura del Liber latino.
A Venezia infine viene compilato il Libro del cuoco (Frati, 1899) che riporta tra l'altro due ricette di Manfredi (la "Torta di re Manfredo da fava frescha" e la "Torta Manfreda bona e vantagiata") e una raffinata frittella di formaggio attribuita a Federico II ("fritelle da Imperadore").
La cucina tardomedievale, che sopravvive se pur modificata per tutto il Rinascimento, è destinata a scomparire, ma abbandonando le mense dei ricchi si nasconde nelle pieghe della tradizione bassa e la vediamo in seguito riemergere e raccogliere un rinnovato interesse sotto la specie di succulente e stravaganti specialità regionali, come lo scapece, la genovese, i pasticci di lasagne, la mostarda di Cremona, le pies e il blancmange inglesi, e tante altre specialità.

Da www.treccani.it

venerdì 23 novembre 2012

SEADAS O SEBADAS


Origini antichissime per questo dolce tradizionale sardo.
Pasta, formaggio fresco, rigorosamente pecorino, strutto, e poi miele: la sebada viene fritta in abbondante olio d’oliva, poi viene servita ancora calda, ricoperta di uno strato di miele (alcuni ci mettono zucchero, ma non c'è dubbio che la ricetta originale prevedesse il miele) Il formaggio contenuto all’interno può essere di vario tipo, ma la ricetta base richiede il pecorino sardo fresco con quattro o cinque giorni di stagionatura.
La sebada (dalla variante nuorese) è un prodotto a base di formaggio, per cui la sua origine è tipicamente pastorale. Proviene infatti dalla Barbagia (centro-Sardegna) e dal Logudoro (Sardegna nord-occidentale), due zone tradizionalmente legate alla pastorizia

Le sebadas sono oggi considerate un dolce, ma un tempo erano una pietanza, più esattamente un secondo piatto e venivano preparate in occasione della Pasqua o del Natale, periodo in cui anche i pastori facevano rientro a casa dagli ovili e preparavano il formaggio pecorino fresco che veniva utilizzato appena raggiunto il giusto grado di acidità, dopo circa due giorni. Si dice che il piatto sia nato da un gesto di amore delle mogli dei pastori per accoglierli con un dolce pensiero dopo il lungo e difficile periodo della transumanza. Il nome , secondo alcuni, deriva da “seu” che in dialetto sardo indica la brillantezza, secondo altri deriva dallo spagnolo e significa “ separato”, e ci potrebbe stare, visto che le seadas sono due dischi di pasta ripieni di ricotta.

Ingredienti: - farina di semola di grano duro - un uovo - un cucchiaio di strutto - formaggio pecorino fresco
- buccia di arancia o limone grattugiata - miele di castagno o corbezzolo sardo

Preparare la sfoglia con la semola e l'uovo e lasciarla quindi riposare.
Nel frattempo grattugiare il formaggio ed impastarlo poi con la scorza grattugiata di arancia o di limone
A questo punto riprendere la pasta e cominciare a tirarla, così da ottenere una sfoglia sottile: ritagliarla dunque in tanti dischi, usando l'apposita rotella o semplicemente la forma di una tazza.
Distribuire su un disco una buona quantità dell'impasto precedentemente preparato e sovrapporre un altro disco di pasta, saldandone bene i bordi. Per facilitare quest'operazione, si consiglia di inumidire leggermente gli orli da congiungere con albume d'uovo.
Procedere al riempimento e la chiusura di tutti i dischi: le seadas sono pronte.
Friggerle quindi in abbondante olio d'oliva, ben caldo, per circa un minuto e cospargerle di miele.



Seadas di Ozieri con uvetta e prezzemolo. Il procedimento è uguale a quello della ricetta tradizionale, con la differenza che l’impasto del ripieno è formato, oltre che dal formaggio grattugiato e dalle uova, dall’uva sultanina precedentemente ammorbidita, da zucchero e da prezzemolo tritato.
Una volta preparate le seadas, viene consigliato di friggerle in olio d’oliva in cui si siano aggiunte alcune cucchiaiate di strutto.
Ben calde, si cospargono di miele.

Curiosità. Ogni anno viene indetto da Laore, agenzia per l’attuazione dei programmi regionali in campo agricolo e per lo sviluppo rurale appartenente alla Regione Sardegna, un ambìto premio per la migliore sebada artigianale.


giovedì 22 novembre 2012

IL PANDOLCE GENOVESE



E' il tipico dolce di Natale di Genova e della Liguria.
La storia del Pandolce è decisamente più antica di quella del più diffuso cugino milanese, il Panettone, nato nel XIX secolo: si era solo a metà del '500 quando il Doge Andrea Doria bandì un concorso tra i pasticcieri della regione perché creassero un dolce che restasse fragrante e profumato abbastanza a lungo da poter essere stivato nella cambusa delle navi. Secondo lo storico Luigi Augusto Cervetto (1834-1923) il dolce avrebbe invece un' origine persiana in quanto, presso questo popolo, all’alba del giorno di Capodanno, era consuetudine offrire al re una specie di grande torta ripiena di mele e canditi che gli veniva recata dal più giovane dei suoi sudditi
Secondo la tradizione, il Pandolce veniva portato in tavola con un rametto d'alloro (ma c'è chi dice d'olivo...) conficcato sulla sommità, e spettava al più giovane della famiglia porgere cerimoniosamente tale rametto al più anziano, mentre la madre recitava: “ Vita lunga con questo pane! Prego per tutti tanta salute, come oggi, così domani affettarlo qui seduti, per mangiarlo in santa pace coi bambini, grandi e piccoli, coi parenti e coi vicini, tutti gli anni che verranno, come spero Dio vorrà”. Dopodiché il Pandolce passava di mano in mano per essere baciato da ogni commensale (gesto denso di significato, che però ora ci farebbe inorridire...) e solo allora il capofamiglia provvedeva a tagliarlo.
La prima fetta veniva messa da parte per il primo povero che si fosse presentato alla porta, la seconda veniva riposta e mangiata il 3 febbraio in occasione della festa di S. Biagio, protettore della gola, perché considerata una specie di panacea per i malanni dell'inverno; quindi, finalmente, iniziava la distribuzione delle preziose e profumate fette.

Il Pandolce ora si trova tutto l'anno, nelle due versioni: tradizionale e più basso, e quello più alto, lievitato.
Gli ingredienti del pandolce sono: farina, burro, anice, uva sultanina, zibibbo, zucca candita (la zuccata siciliana!) canditi, pinoli, acqua di fiori d'arancio, semi di finocchio, lievito preparazione deve essere accurata con particolare riguardo alla lievitazione che ha bisogno di un caldo costante per cui, un tempo, alcune massaie se lo portavano a letto insieme allo scaldino.


http://www.cooker.net

IL CERTOSINO

o Pan Speziale


Il Certosino, o Pan Speziale,  è il dolce tipico di Natale a Bologna, di sicura origine medioevale.

Pare che il nome curioso di questo dolce derivi dal dialetto bolognese pan spzièl, pane speciale (ed era davvero un pane speciale, da consumarsi durante le feste natalizie), ma anche dalle spezie di cui è ricca la ricetta. Successivamente furono i frati della Certosa, oggi cimitero di Bologna, a prepararlo e il nome del dolce divenne dunque Certosino, cioè quello della confraternita.
Il Certosino fu conosciuto anche alla corte papale per opera dei frati di San Brunone, è infatti documentato che dal 1740 e per molti anni, dal monastero bolognese, per Natale partiva alla volta di Roma un gigantesco Pane Certosino destinato a Prospero Lambertini, papa Benedetto XIV.
Tradizionalmente, il Certosino viene preparato con ingredienti particolari e speziati come la cannella, semi di anice, chiodi di garofano, farina, zucchero, miele, burro, canditi, pinoli, mandorle, uvetta sultanina e cioccolato fondente.
Esso viene preparato in una teglia di forma rotonda circa un mese prima di Natale, in quanto necessita di un periodo di riposo e di stagionatura (in un luogo fresco ed asciutto, assolutamente non il frigorifero).

Nel giugno del 2003 la delegazione di Bologna dell' Accademia Italiana della Cucina ha depositato presso la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Bologna la ricetta ufficiale del Certosino o Panspeziale. La ricetta è stata elaborata a seguito di ricerche storiografiche ed è protetta con il marchio di qualità STG (Specialità tradizionale Garantita).






lunedì 19 novembre 2012

Nei secoli XIII-XIV

Il Basso Medioevo rappresenta un passo fondamentale verso il concetto di pasticceria nel senso oggi comune, grazie ai fiorenti traffici che portavano alcuni ingredienti fondamentali alle corti dei nobili. Tra questi zucchero di canna, cannella, zenzero, riso, sesamo, noce moscata, chiodi di garofano.

In particolare il periodo che va dal 1300 al 1400 vede nascere le basi dell'arte culinaria che, evolvendosi, giungerà sino a noi. In questo periodo vengono scritti diversi ricettari che, sebbene non esaurienti e lacunosi su molti punti, evidenziano che mangiare cominciava a diventare un'arte codificata in tutta Europa e non un semplice "mettersi a tavola". Viene recuperata l'attenzione alla dietetica recuperando la teoria degli umori di Galeno, riportata in Europa dagli Arabi, attenzione che garantì una buona diffusione alle varie opere culinarie giunte sino a noi.
Il primo ricettario dell'epoca sembra essere stato il Libro della Cocina, di un anonimo fiorentino, che riporta una sessantina di ricette di uso comune, da cui si nota ancora una notevole commistione di dolce con salato. Le ricette dell'epoca cominciano ad essere per noi più decifrabili, grazie all'evoluzione della lingua volgare che accenna i caratteri che la porteranno a diventare lingua nazionale. I dolci assumono tipologie e caratteristiche che manterranno per i secoli a venire e che verranno non più sostituite, quanto integrate dalle novità che andranno via via a formarsi grazie anche all'apporto di nuovi ingredienti.
Una suddivisione semplificata ci porta a delineare alcune famiglie principali:
  • Dolci fritti come frittelle, crispelle, ravioli dolci ripieni di spezie, noci o mandorle, miele, frutta secca. Da essi derivano le attuali frittelle, i krapfen, i bignè e le bugie o chiacchere di carnevale, i doughnuts americani, gli struffoli napoletani e altri simili.
  • Biscotti e cialde come le gauffres, francesi e belghe, i pancakes americani, le crepes francesi, i pfannkuchen tedeschi, canestrelli italiani, le Offelle
  • Pandolci lievitati di frutta o spezie, conosciuto dalla cucina austriaca e tedesca, in Italia come il panpepato, il buccellato, il pandiramerino. Da essi derivano dolci come il panettone, il pandolce genovese
  • Dolci non lievitati a base di frutta secca. Molti dolci sono in uso ancora oggi e hanno mantenuto quasi invariati gli antichi nomi: lo Zelten sudtirolese, la stiaccia briaca elbana, la Rocciata di Assisi.
  • Dolci di frutta oleaginosa. Spesso legati con miele, caramellato o meno, comprendono tutti i dolcetti di mandorle, antenati degli attuali amaretti, i croccanti di semi dolci, come il Nucato di noci, il torrone (di origine araba), la pignoccata umbra, il panforte di siena ed il Fruchtebrot dal Tirolo.
  • Canditi. Diffusissimi e preparati con frutta di ogni genere: datteri, pesche, agrumi (particolarmente apprezzati), meloni, fichi, mandorle, da cui derivano i nostri canditi nuziali.
  • Sciroppi, vini aromatizzati e liquori. È una famiglia molto diffusa e variegata, allora più di oggi. Comprende preparazioni come il Sidro, il Rosolio, distillati di frutta varia, vini speziati come l'Ippocrasso, o l'Alchermes, liquori di bacche come il Biancospino o il Ginepro.
  • Dolci al cucchiaio, alcuni già diffusi in epoca romana: creme, budini, flan, polente dolci, sformati di farine varie, come il castagnaccio.
  • Crostate, più diffuse nel salato, che man mano vedranno moltiplicarsi le versioni dolci. Diffuse all'epoca con ripieni di formaggio fresco e miele, talvolta addizionati di spezie e canditi. Da esse derivano dolci come la cassata siciliana e tutta la famiglia del Käsekuchen (torta di "topfen o quark" (formaggio fresco)).
Si noti che non si presentano ancora preparazioni deperibili e molto raramente soffici: i dolci restano beni di lusso fatti per durare e venire trasportati senza problemi dalle carovane o inviati come doni tra i potenti. Gli unici dolci soffici sono, come nei secoli precedenti, i pani lievitati.

La Rocciata umbra


La Rocciata ha origini molto antiche, probabilmente risalente ai primi insediamenti umbri, infatti nelle "tavole eugubine" si parla di un alimento con tutta probabilità simile alla rocciata ed usato nei riti sacri: il "tensendo", dolce proprio del dio Hondo Cerfio, antica divinità umbra.
Alcuni sostengono addirittura che, per la somiglinza della Rocciata con lo strudel, potrebbero esserci dei legami con i Longobardi, che in territorio umbro, nell'alto medioevo, avevano un loro Stato. Infatti, il dolce è formato da una sottile sfoglia di pasta in cui viene avvolto un ripieno costituito da: noci tritate, pinoli, uvetta sultanina, zucchero, mele e olio d’oliva al quale, come variante, è possibile aggiungere anche il cacao.
La rocciata si prepara durante le festività invernali, soprattutto durante il Natale e le feste dei Morti e dei Santi.
Come qualsiasi dolce tipico, ogni famiglia ha la sua ricetta e gli ingredienti possono variare.

Ecco i principali:
250 gr di farina
50 gr di zucchero
1 pizzico di sale
1/2 bicchiere d’olio
1/2 kg di mele tagliate a fettine
100 gr di uva sultanina
50 gr di pinoli
alcuni gherigli di noce spezzettati.



venerdì 16 novembre 2012

PANFORTE e PANPEPATO 

 


La ricetta di questo antico dolce speziato di forma rotonda è presente con diverse varianti in regioni come Toscana, Emilia Romagna, Umbria e Lazio. L'antenato del panpepato sarebbe il melatello, un semplice dolce a base di farina e di acqua melata, ossia acqua usata per risciacquare i recipienti che avevano contenuto miele. L'usanza di utilizzare questo liquido era già presente sulle tavole dei romani che l'usavano per dolcificare preparati fatti con latte, uova, frutta secca e vino.
Nel Medioevo i dolci melati si arricchirono delle spezie diventando un cardine della cucina dolce di corte. Fu Siena, grazie ai ricchi commerci, che fece di queste preparazioni un'eccellenza.
Si racconta che l'ispirazione venne presa da certi pani speziati a base di miele riportati dall'Oriente dal senese Niccolò de' Salimbeni nel XII secolo. I primi produttori furono i monasteri, a Siena lo facevano le suore di camaldolesi di Montecelso e i francescani della basilica dell'osservanza.
La ricetta originale prevedeva la farina, miele, frutta di stagione (fichi, arance, susine, mele, uva) e spezie. Cuocendo l'impasto si aveva l’accorgimento di lasciarlo un po’ umido, in modo che la frutta fermentasse, dando alla focaccia il caratteristico gusto acidulo: da qui il nome panforte.
Questo genere di dolce era già nel 1370 un prodotto senese da esportazione, consumato anche a Venezia durante le festività (Natale).
Con il trascorrere del tempo la ricetta si trasformò sostituendo la frutta bollita con frutta candita e secca, per ottenere un dolce di maggiore serbevolezza.
Oggi dovrebbero essere diciassette gli ingredienti che compongono il panforte, come dal 1675 diciassette sono le contrade del Palio.
Ecco nell’ordine: miele, zucchero, farina di grano, noci, nocciole, mandorle, popone candito, cedro candito, aranci canditi, scorza di limone candita, corteccia di cannella, coriandolo, pepe aromatico, pinoli, chiodi di garofano, acqua per impastare e fuoco per cuocere.
Il famoso “Panforte Margherita”, più delicato, fu inventato solo nel 1879 da Enrico Righi (allora proprietario del negozio Panforte Parenti), in occasione della visita a Siena della regina Margherita di Savoia.



Da taccuinistorici.it